Passano gli anni

Non tornavo qui da tempo e mi pare di entrare in uno stanza chiusa da anni. Abbasso la maniglia e chiedo permesso. Non so dove mettermi, mi fermo zitta, in imbarazzo, osservo le pareti bianche, affino l’olfatto per capire quali odori, quali profumi, se l’aria si porta con sé il senso di una promessa o di una sconfitta. Osservo le lenzuola sventolare violente, il vento di fine maggio romba nelle vie strette, sembra l’aria di mare, eppure l’acqua non c’è, solo il clacson innervosito di qualche automobilista affaticato, le noie del dopo quarantena, la vita che riprende come niente fosse stato.

© I.

Torno qui, per una fitta di nostalgia, perché mi dico che fermare il tempo non si può, solo cercare di raccontarlo in qualche modo distratto, fingendo che tutto vada per il verso corretto, eppure c’è sempre un intoppo. Mia madre, chiamerebbe questo fenomeno, il “guardarsi vivere”. Me lo spiegava ieri a proposito di Lila e Lenù. “Ma alla fine di tutto, cosa resta?”. È questa una delle domande che mi pongo, che mi resta appicciata addosso, anche dopo seicento pagine di tesi. Che cosa resta di quella storia, quale è quella musica che non riusciamo a scollarci di dosso? Quante cose vorrei dire, di questi giorni strani, di questi giorni del post-scrittura, dove tutto diventa difficile: leggere, bere un thé guardando oltre il vetro. La sera arriva troppo presto, eppure la luce è sempre lunga sui marciapiedi, anche alle nove passate. I giorni corrono e io altro non so fare che continuare a scrivere, continuare a battere sui tasti, come se il tempo non si fosse mai fermato. Quasi mi ritrovo a sperare che ci siano altre correzioni da fare, altre pagine da risistemare. Come correggersi, del resto, quando quella routine altro non era che il mio mondo, e ora uscirne, chiudere la porta, dire “è finito”, mi fa strano. Come ogni volta che finisce qualcosa. Non so mai far finire. Forse il tutto parte da lì.

Penso al #dottorato1, a quanto l’avevo ammantato di speranza e promessa e chissà che grandi miti. Tutto è stato fatto nel dolore e nel pathos, l’iscrizione kafkiana, la luce dei pomeriggi e le infinite tazze di thé sulla scrivania. Tutto nel pathos: l’inizio inglorioso, la fine nelle lacrime, il senso dell’interruzione. Penso ora, invece, al #dottorato2 e a quanto invece sia stata una corta, rapidissima discesa verso qualcosa di naturale e di noto. Le pagine da scrivere, la fatica dolce, gli occhi che brillano, la scontentezza del ritmo, poco sonno e molte parole, moltissime parole, parlare di Lei, vederla emergere tra le pagine, soffrire per quel risultato incomprensibile che è La vita bugiarda, poi rituffarsi tra le pagine, limare, ôter quel che non serve, e poi ancora togliere e togliere, arrivare a una scarnificazione che possa essere più diretta. Quanto tempo speso. A volte, per gioco, controllavo i minuti passati sul quel documento word. È stata la mia vita per questi anni, e ora che ancora non è finito ma io già sento la fine, mi chiedo come potrò pensare di fare altro, poi, nei giorni del poi, cosa sarà il poi. Io non lo riesco a capire.

Torno qui, così, perché quando si smarrisce la bussola (l’ho mai posseduta?) forse si torna nei luoghi noti. Per dirsi: vediamo un po’ che fare, ora. Mi sto osservando vivere? Forse un po’ sì, forse è un po’ quello il punto: il segno dell’età matura, dice mia madre, e allora essere adulti, mi dico, significa sapersi guardare fare le cose e avvertire uno scollamento. A volte, questo vedermi vivere, ha preso i contorni di una vertigine dolce, struggente e bellissima: guardarmi nel riflesso del vetro, alle otto del mattino, in novembre, le strade umide e i fari sull’asfalto. Osservare, sempre dal vetro, i miei studenti con il capo chino, intenti a scrivere, a tradurre. Osservare il vetro, poi me nel vetro, poi gli studenti nel vetro e dirmi: sta succedendo proprio a me, per un poco sono stata qui. Ho cercato di vedermi vivere, in questi anni. Se c’è una cosa che desidero follemente sono quelle aule, quel poter sentire – sì, sentire – tutti i minuti che scivolano e cercare di dirmi: sentili, sentili addosso, stanno passano, certo, eppure tu li stai vivendo, sei stata qui, c’è stato un tempo in cui sei stata in un’aula universitaria, in cui facevi teatro, la sera, con gli studenti, e gli insegnavi a pronunciare le parole, a soffrire e gioire sulla scena. C’è stato un tempo in cui avete trasformato un racconto in una pièce di teatro, un tempo in cui avete letto poesie in aula e le avete commentate insieme, un tempo in cui avete tradotto cercando di entrare nella lingua dell’autore, nella sua testa e poi – anche – nel suo spirito. C’è stato un tempo in cui ti sei sentita vivere, quello sì, ma sentivi che in quella vita, corta – brevissima – a scadenza – tu stavi essendo nell’esatto luogo in cui volevi essere. Ti si imprime il sorriso, la pelle si fa più dura, senti gli anni che passano sopra di te, eppure ti senti addosso quel brivido dei diciotto anni, quel cancello della maturità, in un luglio assolato e impossibile, ti senti addosso la speranza e l’orrore del vuoto, e poi ti dici che lì ci sei stata, in quell’aula, in quei corridoi che si svuotano per gli esami estivi, in quelle parole battute al computer, in quei libri che hai trasformato in dialogo. Per un po’, vedendoti vivere, hai sentito che stavi vivendo quello che volevi vivere. Mica è poco, questo. No?

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