Ieri ho fatto lezione dinnanzi a un’aula vuota. I miei studenti erano a casa, per ragioni varie e disparate dovute a questa difficile pandemia, e dunque, nel silenzio del mattino, avevo il computer davanti agli occhi e così i loro nomi, qualche viso: il suono metallico del pc. Non lo sapevo – mentre stavo facendo lezione dopo una notte insonne, dopo un giorno difficile dove alcune speranze si erano spezzate – che quella di ieri sarebbe stata (forse) l’ultima lezione in un’aula universitaria della mia vita. Non so se torneremo in presenza, non so se ci sarà un giorno di marzo, o uno di inizio aprile, in cui una mail mi comunicherà che l’incantesimo cattivo si è spezzato, che ci saranno ancora volti o occhi vispi dinnanzi a me. Ora, nel silenzio della mia stanza, scrivo ancora a questo stesso computer, ricordandomi che la vita ci accade addosso quando meno ce lo aspettiamo. Che la significazione del nostro passato è sempre in un après coup, che solo guardando indietro potremmo definire il nostro presente e fors’anche il nostro futuro. Non so quanto tempo ho a disposizione. O meglio, lo so con certezza. Una manciata di settimane, qui, con loro, i ragazzi, ad ascoltare anche, nelle discussioni di pratica orale, i loro sogni e le paure, le speranze tradite, l’angoscia del futuro e quel loro sentirsi “già vecchi, già condannati anzi tempo”. Ieri, andando verso la segreteria, attraversavo i corridoi vuoti un tempo gremiti di studenti vocianti, stanchi o annoiati, divertiti, ridanciani, vivi. Il silenzio di questa fine d’inverno suona come una minaccia: una cappa pesa su di noi, su noi tutti, il presagio di una chiusura, di un’impossibilità, lo spettacolo di teatro messo a tacere, i ragazzi delusi con i loro vestiti neri, i copioni spiegazzati a ingrigire di polvere e l’addio, quell’addio così doloroso. Un addio che dura da quattro anni, perché già il primo giorno sapevo – dovevo sapere – che ogni giorno, ogni ora, ogni minuto sarebbero stati giorni, ore, minuti sottratti alla mia permanenza qui, in quest’università tanto amata, nei suoi muri color arancio caramello, nel blu del ferro, nella corte interna e negli alberi incendiati di colori violenti l’autunno, e rosa di germogli in primavera. Non si può fare altro, mi dico, che vivere così. Che gettarlo il cuore oltre l’ostacolo, che credere con fiducia nella bontà del proprio lavoro e poi superare il dolore di doverlo lasciare. Non ci si deve attaccare alle cose e invece io a questi luoghi, a questi corridoi, a queste grandi finestre che prendono la luce mi ci sono legata, e così ai miei colleghi, alle loro voci, e i sorrisi, e il tempo buono che per me è stato quello dell’essere nel luogo esatto in cui avrei voluto passare il resto della mia vita.
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