Un’aula vuota

Labo 229

Ieri ho fatto lezione dinnanzi a un’aula vuota. I miei studenti erano a casa, per ragioni varie e disparate dovute a questa difficile pandemia, e dunque, nel silenzio del mattino, avevo il computer davanti agli occhi e così i loro nomi, qualche viso: il suono metallico del pc. Non lo sapevo – mentre stavo facendo lezione dopo una notte insonne, dopo un giorno difficile dove alcune speranze si erano spezzate – che quella di ieri sarebbe stata (forse) l’ultima lezione in un’aula universitaria della mia vita. Non so se torneremo in presenza, non so se ci sarà un giorno di marzo, o uno di inizio aprile, in cui una mail mi comunicherà che l’incantesimo cattivo si è spezzato, che ci saranno ancora volti o occhi vispi dinnanzi a me. Ora, nel silenzio della mia stanza, scrivo ancora a questo stesso computer, ricordandomi che la vita ci accade addosso quando meno ce lo aspettiamo. Che la significazione del nostro passato è sempre in un après coup, che solo guardando indietro potremmo definire il nostro presente e fors’anche il nostro futuro. Non so quanto tempo ho a disposizione. O meglio, lo so con certezza. Una manciata di settimane, qui, con loro, i ragazzi, ad ascoltare anche, nelle discussioni di pratica orale, i loro sogni e le paure, le speranze tradite, l’angoscia del futuro e quel loro sentirsi “già vecchi, già condannati anzi tempo”. Ieri, andando verso la segreteria, attraversavo i corridoi vuoti un tempo gremiti di studenti vocianti, stanchi o annoiati, divertiti, ridanciani, vivi. Il silenzio di questa fine d’inverno suona come una minaccia: una cappa pesa su di noi, su noi tutti, il presagio di una chiusura, di un’impossibilità, lo spettacolo di teatro messo a tacere, i ragazzi delusi con i loro vestiti neri, i copioni spiegazzati a ingrigire di polvere e l’addio, quell’addio così doloroso. Un addio che dura da quattro anni, perché già il primo giorno sapevo – dovevo sapere – che ogni giorno, ogni ora, ogni minuto sarebbero stati giorni, ore, minuti sottratti alla mia permanenza qui, in quest’università tanto amata, nei suoi muri color arancio caramello, nel blu del ferro, nella corte interna e negli alberi incendiati di colori violenti l’autunno, e rosa di germogli in primavera. Non si può fare altro, mi dico, che vivere così. Che gettarlo il cuore oltre l’ostacolo, che credere con fiducia nella bontà del proprio lavoro e poi superare il dolore di doverlo lasciare. Non ci si deve attaccare alle cose e invece io a questi luoghi, a questi corridoi, a queste grandi finestre che prendono la luce mi ci sono legata, e così ai miei colleghi, alle loro voci, e i sorrisi, e il tempo buono che per me è stato quello dell’essere nel luogo esatto in cui avrei voluto passare il resto della mia vita.

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Passano gli anni

Non tornavo qui da tempo e mi pare di entrare in uno stanza chiusa da anni. Abbasso la maniglia e chiedo permesso. Non so dove mettermi, mi fermo zitta, in imbarazzo, osservo le pareti bianche, affino l’olfatto per capire quali odori, quali profumi, se l’aria si porta con sé il senso di una promessa o di una sconfitta. Osservo le lenzuola sventolare violente, il vento di fine maggio romba nelle vie strette, sembra l’aria di mare, eppure l’acqua non c’è, solo il clacson innervosito di qualche automobilista affaticato, le noie del dopo quarantena, la vita che riprende come niente fosse stato.

© I.

Torno qui, per una fitta di nostalgia, perché mi dico che fermare il tempo non si può, solo cercare di raccontarlo in qualche modo distratto, fingendo che tutto vada per il verso corretto, eppure c’è sempre un intoppo. Mia madre, chiamerebbe questo fenomeno, il “guardarsi vivere”. Me lo spiegava ieri a proposito di Lila e Lenù. “Ma alla fine di tutto, cosa resta?”. È questa una delle domande che mi pongo, che mi resta appicciata addosso, anche dopo seicento pagine di tesi. Che cosa resta di quella storia, quale è quella musica che non riusciamo a scollarci di dosso? Quante cose vorrei dire, di questi giorni strani, di questi giorni del post-scrittura, dove tutto diventa difficile: leggere, bere un thé guardando oltre il vetro. La sera arriva troppo presto, eppure la luce è sempre lunga sui marciapiedi, anche alle nove passate. I giorni corrono e io altro non so fare che continuare a scrivere, continuare a battere sui tasti, come se il tempo non si fosse mai fermato. Quasi mi ritrovo a sperare che ci siano altre correzioni da fare, altre pagine da risistemare. Come correggersi, del resto, quando quella routine altro non era che il mio mondo, e ora uscirne, chiudere la porta, dire “è finito”, mi fa strano. Come ogni volta che finisce qualcosa. Non so mai far finire. Forse il tutto parte da lì.

Penso al #dottorato1, a quanto l’avevo ammantato di speranza e promessa e chissà che grandi miti. Tutto è stato fatto nel dolore e nel pathos, l’iscrizione kafkiana, la luce dei pomeriggi e le infinite tazze di thé sulla scrivania. Tutto nel pathos: l’inizio inglorioso, la fine nelle lacrime, il senso dell’interruzione. Penso ora, invece, al #dottorato2 e a quanto invece sia stata una corta, rapidissima discesa verso qualcosa di naturale e di noto. Le pagine da scrivere, la fatica dolce, gli occhi che brillano, la scontentezza del ritmo, poco sonno e molte parole, moltissime parole, parlare di Lei, vederla emergere tra le pagine, soffrire per quel risultato incomprensibile che è La vita bugiarda, poi rituffarsi tra le pagine, limare, ôter quel che non serve, e poi ancora togliere e togliere, arrivare a una scarnificazione che possa essere più diretta. Quanto tempo speso. A volte, per gioco, controllavo i minuti passati sul quel documento word. È stata la mia vita per questi anni, e ora che ancora non è finito ma io già sento la fine, mi chiedo come potrò pensare di fare altro, poi, nei giorni del poi, cosa sarà il poi. Io non lo riesco a capire.

Torno qui, così, perché quando si smarrisce la bussola (l’ho mai posseduta?) forse si torna nei luoghi noti. Per dirsi: vediamo un po’ che fare, ora. Mi sto osservando vivere? Forse un po’ sì, forse è un po’ quello il punto: il segno dell’età matura, dice mia madre, e allora essere adulti, mi dico, significa sapersi guardare fare le cose e avvertire uno scollamento. A volte, questo vedermi vivere, ha preso i contorni di una vertigine dolce, struggente e bellissima: guardarmi nel riflesso del vetro, alle otto del mattino, in novembre, le strade umide e i fari sull’asfalto. Osservare, sempre dal vetro, i miei studenti con il capo chino, intenti a scrivere, a tradurre. Osservare il vetro, poi me nel vetro, poi gli studenti nel vetro e dirmi: sta succedendo proprio a me, per un poco sono stata qui. Ho cercato di vedermi vivere, in questi anni. Se c’è una cosa che desidero follemente sono quelle aule, quel poter sentire – sì, sentire – tutti i minuti che scivolano e cercare di dirmi: sentili, sentili addosso, stanno passano, certo, eppure tu li stai vivendo, sei stata qui, c’è stato un tempo in cui sei stata in un’aula universitaria, in cui facevi teatro, la sera, con gli studenti, e gli insegnavi a pronunciare le parole, a soffrire e gioire sulla scena. C’è stato un tempo in cui avete trasformato un racconto in una pièce di teatro, un tempo in cui avete letto poesie in aula e le avete commentate insieme, un tempo in cui avete tradotto cercando di entrare nella lingua dell’autore, nella sua testa e poi – anche – nel suo spirito. C’è stato un tempo in cui ti sei sentita vivere, quello sì, ma sentivi che in quella vita, corta – brevissima – a scadenza – tu stavi essendo nell’esatto luogo in cui volevi essere. Ti si imprime il sorriso, la pelle si fa più dura, senti gli anni che passano sopra di te, eppure ti senti addosso quel brivido dei diciotto anni, quel cancello della maturità, in un luglio assolato e impossibile, ti senti addosso la speranza e l’orrore del vuoto, e poi ti dici che lì ci sei stata, in quell’aula, in quei corridoi che si svuotano per gli esami estivi, in quelle parole battute al computer, in quei libri che hai trasformato in dialogo. Per un po’, vedendoti vivere, hai sentito che stavi vivendo quello che volevi vivere. Mica è poco, questo. No?

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Il giusto mezzo

Quello che chiamo il giusto mezzo è la capacità di mescolare sapientemente umanismo e professionalità. Il giusto mezzo mi permette di restare fedele a un’etica del lavoro ben fatto, che per me coincide con un’etica personale. L’esser-ci, prima di tutto, con i propri beni e i propri mali, pregi e difetti, onestamente, dando ciò che possiamo dare. In me si traduce: tutto ciò che posso dare finché ne ho la possibilità, finché ne ho la vita, finché il male che mi farai non sarà così grande da farmi capitolare a terra, dicendomi che la linea è stata davvero oltrepassata, che non mi spingerò più così in là, se il prezzo è rovinare a faccia dritta contro il suolo.

© Andrea Ucini -Relationship

Il giusto mezzo dovrebbe intervenire qui, proprio qui, prima che faccia buio e sia troppo tardi. Per dirmi che posso tirare il freno anche un attimo prima, che forse mettere se stessi così tanto, così a nudo, non è proprio necessario, che tanto non salverai né il mondo, né lo studente svogliato. Chiede Bloom: “Si può insegnare la solitudine?” Per lungo tempo ho creduto di sì. Che si potesse insegnare una postura buona verso il mondo, che la sensibilità non fosse solo frutto di una dote precostituita, ma che si costruisse attraverso se stessi – certo – ma anche dall’incontro con l’altro. Credo ancora al potere delle parole? Si può cambiare una testa nata storta, insegnare che all’interno delle pieghe di un testo, nella fatica di un esame preparato fino alla disperazione facendo le ore piccole, risiede una forma di possibilità per se stessi? Credo ancora che la febbre da “parole pesanti” che gravano nella stanza come se non si cambiasse aria da secoli possa, in qualche modo, trasforamare i cervelli? Sì, lo credo ancora, ma non so più se lo si può insegnare. Si può insegnare la solitudine, chiede Bloom, nel senso: si può insegnare il piacere-dovere-necessità, di essere soli con se stessi per formarsi, leggere, andare al cinema o alle mostre, contemplare un cielo ventoso, restare muti allo spuntare dell’ultima stella e poi farne, di queste cose semplici e quotidiane, materia di riflessione, tessuto della propria identità? Bloom dice di no. Non si insegna, si impara da soli. Io ho cercato questa strada, e credo, scontrandomi contro i miei infiniti limiti, di crederci ancora un po’, anche se la realtà – la mia – vacilla.

Vacilla dinnanzi alla furberia, alla meschinità del trovare la scorciatoia più rapida, alla mancanza di responsabilità. “Non lo fanno contro di te, lo farebbero con chiunque”. Lo so. Ma credevo d’aver insegnato il rispetto non verso di me, ma quello verso se stessi. Non basta. Non basta perché non ho fatto abbastanza? Il tempo era troppo poco? Non sono stata abbanstanza chiara? Sorrido troppo (direbbe mia mamma)? Io non lo so dove si è inceppato il meccanismo, e forse dovrei essere meno sartriana, eppure questo errore loro, l’errore del copiare, del fare i furbastri, dell’aggirare l’ostacolo finché si crede di avere margine di manovra, mi pare responsabilità mia. Potevo sorvegliare di più, non dare fiducia da subito, ritirare tutti i cellulari e metterli davanti a me, non farli uscire una volta il compito terminato ma tenerli in ostaggio ancora per un’altra ora. Aspettare, guardarli, scrutarli senza posa. Ho sbagliato a sedermi mezz’ora. Avrei dovuto continuare a camminare, arrivare a guardare fin dentro le loro tasche, rasentare i muri per non dar loro mai – mai! mai! – le spalle.

Ma poi mi dico. Non voglio questo, non credo a questo modo poliziesco, intimidatorio, pregiudizievole di guadare l’altro. Mi illudo che tendere una mano sia dare sufficiente (non totale! si badi) fiducia per dire: so che potresti cadere in tentazione, metto in atto una serie di misure per evitarti di cedere alle lusinghe della scorciatoia, ma non sarò il tuo carceriere, solo il tuo insegnante. Sono qui per guidarti, per valuare la tua prova, non per giudicarti, punirti, prevenire mosse che nella tua testa non hai nemmeno pensato.

Mi trovo così, in giorni pieni, con un caldo asfissiante per le vie, zanzare che tormentano le notti novembrine dove neanche la luce d’autunno c’è dato di toccare, a chiedermi dove sta il giusto mezzo. Dove è la postura più giusta. Dir loro che mi hanno deluso? Che dietro i ruoli ci sono le persone? E dietro le persone, fatte di carne e sangue, c’è la testa, il pensiero, la fiducia tradita? Non dir niente, annullare semplicemente la prova (cosa che farei comunque) comunicando freddamente che il comportamento non è tollerato, né ora né mai, e che la prossima volta la sanzione sarà ancora più pesante? Il giusto mezzo tra il dire e il sentire, dov’é?

Mi perdo, i giorni passano, viviamo in tempi bui, eppure m’aggrappo, come fa Lea Melandri, alle schegge luminose che squarciano la notte, pensieri lanciati sulla carta a formare un’identità più vera di quella in carne e d’ossa. M’aggrappo a tutti gli onesti, indipendentemente dalle tentazioni, alla mia studentessa che si ferma dopo lezione per dirmi che aspetta il mio corso tutta la settimana, con impazienza, o all’altra che sta sveglia di notte per scrivere e riscrivere il suo dialogo per lo spettacolo teatrale.

Mi aggrappo a quelli che piangono, che piangevano quando dicevo loro che bisogna essere coraggiosi e lottare affinché il mondo sia migliore, non rendendosi complici della catastrofe. Mi aggrappo a quelli che volevano mollare e hanno resistito, a quelle che hanno avuto il coraggio di mettere il rossetto e indossare un paio di calze. Mi aggrappo a quelli che mi chiedono libri, consigli, parole, mi aggrappo a quei sorrisi, a quei volti spaventati, mi aggrappo all’orgoglio di un voto buono e al coraggio di sbagliare, cadere, infrangersi con le proprie sole armi, quelle oneste, quelle della testa.

E allora mi dico: non generalizzare, non vedere solo ciò che non fai, guarda loro, gli altri, riparti da ciò che c’è di buono.

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Un incubo

È il finire di una bella giornata di sole. Due care amiche passano a prendermi con la macchina, andiamo a fare un giro, una gita, mi dicono. Salgo con loro sul sedile posteriore. Alice guida, è sorridente, ha i capelli sciolti, gli occhi truccati di scuro. Chiara è seduta vicino a me, è più taciturna, ma ugualmente serena, lo percepisco dal suo respiro calmo, so riconoscere quando è di umore cattivo.

© Emiliano Ponzi, Constance, The New York Times, 2013.

Arriviamo a destinazione che è già l’imbrunire. Il cielo si tinge di scuro, osservo le ombre proiettate sul terreno rossiccio, lunghi fasci neri attraversati dalla luce. Non conosco questo posto, non l’ho mai visto prima. L’auto si spegne, mi dicono di scendere, siamo arrivate. È una sorpresa, è per il tuo compleanno, che cosa credi, che non avremmo festeggiato? , dico io, sono commossa, non me l’aspettavo, non credevo.. 

Così scendo, mi incammino piano, sono curiosa di capire dove mi trovo, dove sia la sorpresa, esplorare il luogo sconosciuto, capire perché l’hanno scelto per me. È una terra di mezzo, un posto sconnesso, di terriccio e polvere, arido, senz’alberi, all’aperto, quasi una discarica, ma senza detriti, mi dico. Poi mi accorgo di due elementi, illuminati dall’ultimo cono di luce, prima che faccia buio. Due elementi infinitamente grandi, immensi, che svettano atroci nella loro bruttezza, nell’imponenza impossibile di un’altezza che non mi pare controllabile, e mi dà le vertigini, pur essendo inchiodata al terreno. Sono due grattacieli. Due torri che sfrecciano dritte verso la notte, che si stagliano nella loro massiccia enormità, e mi mozzano il respiro. Ho una paura inspiegabile, violenta, nauseante. Non hanno finestre, so però che sono grattacieli – grattacieli – lo ripeto ancora, quasi per convincermene. Sono orrendi, scrostati, arrugginiti. Cercando di osservarli dal basso, mi dispero rendendomi conto che la sommità non esiste, o forse sì, ma non è percepibile da un occhio umano, o almeno non dal mio, non qui, non così, con il fiato mozzato dall’angoscia, il desiderio di correre via.

Ma dove sono le mie amiche? M’accorgo, solo ora che ormai la notte è calata, che non sono mai scese dalla macchina, anzi, sento un rombo sordo, hanno messo in moto. La portiera accanto al conducente è aperta. Vedo Valeria. Lei qui? Ma non c’era, non era venuta, cosa ci fa lì seduta? Credevo m’avesse dimenticata, credevo non volesse partecipare alla sopresa, credevo tante cose. Nel chiudere la portiera mi guarda: è truccata, i capelli in ordine, come le è sempre piaciuto, un abito da sera. Che cosa credevi, che t’avremmo davvero festeggiata? Pensavi di meritare una sorpresa? Eccolo qui il tuo regalo: torna a casa se ci riesci.

Disperata, senza fiato, incapace di articolare una qualsiasi parola, bisbiglio: aspettate, vi prego, solo un passaggio, buttatemi poi dove volete. M’aggrappo all’auto, non ho memoria del viaggio, so solo che d’un tratto, scaraventata contro il marciapiede, mi ritrovo nel paese della mia infanzia. La loro auto sfreccia via, si perde nell’oscurità di una notte buia, senza parole. Sono per le strade di un paese dimenticato, che non è più mio, non m’appartiene più. So che devo sopravvivere. Corro disperata tra bande di ragazzini armati, volti coperti, sguardi cupi. Hanno delle pistole, mi dico, prima o poi spareranno: non posso salvarmi. Uno sparo.

Tremo forte. Sono sveglia.

Notte del 4 settembre 2018, ore 4h48.

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Tracce d’ombra

Osservo la casa nella penombra, le veneziane abbassate, le tende tirate, il tentativo di fare buio per difendersi dal sole. La casa è silenziosa, le finestre restano aperte sulla corte interna, guardo la girandola, la piantina di basilico [ha caldo, soffre, le do da bere, spero sopravviverà].

© I.

In questi giorni di febbre e di crampi, dove alzarsi dal divano è uno sforzo sovraumano, dove bevo per non disidratarmi e combatto un virus antipatico, mi accorgo di quanto rumori, odori forti (il fumo prima di tutto) possano essere molesti.

Anche scrivere costa fatica, mi fanno male i polsi, la nausea davanti allo schermo si fa forte. Chiudo qui, volevo scrivere più a lungo, lasciare una piccola traccia e fare una riflessione: sarà per la prossima volta.

 

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Prima che l’estate avanzi

È tardi.

È troppo tardi per il cielo. Una copertina di un vecchio CD, un diesegno di Magritte rivisitato per l’occasione, un lampione illuminato a notte in un cielo d’alba. Una musica che non sento da tempo.

© I.
Plan perdu, 2018.

Penso che sia tardi, sì, per mettere i piedi uno accanto all’altro, batterli sull’attenti, accettare facendo un breve cenno del capo. Signorsisignore. È molto tardi per tutto questo. Per continuare a illudersi e per continuare a sperare. Forse mi dico, in un angolo di me, che è tardi anche per la rabbia. Per la protesta che qualche anno fa avrei definito “etica”, “civica”, ma che oggi mi pare solo la stranca riproposizione di un’idea di mondo forgiata in adolescenza, senza scambi con il reale.

Quello che conta è la sincerità. La trasparenza, il dire vero. Ma poi te li ritrovi tutti lì, uno vicino all’altro, le scarpe ben lustrate per fare bella figura, il sorriso tirato senza che gli occhi vadano avec, la bocca cucita che sennò, se parli, ti becchi una bella etichetta sulla fronte e con il cavolo che ti danno la promozione, il posto da servo che ubbidisce al padrone ma che finge di essere anche lui, con i suoi chili di esperienze, un po’ più meritevole di stare al mondo. Tu la bocca non te la sei cucita, e le scarpe non te le sei lustrate, quando sorridi ti vengono le rughe perché a fuoria di gentilezza ti si è increspata la pelle. Hai pensato che se avessi fatto bene ti avrebbero premiata, o forse no. Forse speravi semplicemente che ti avrebbero riconosciuto la miseria del tuo piccolo-lavoro-che-non-serve-a-niente. E invece no. Invece hai parlato quando non dovevi, invece hai messo il rossetto quando potevi essere cheta, invece hai riso forte e stretto mani quando avresti potuto essere timida. Ma dove sta la misura? Come si fa? Io non lo so più.

Ho detto una frase, ai ragazzi, alla fine dell’anno: va bene tutto, ma non scendete a compromessi. Non fatelo se per compromesso significherà sacrificare la vostra identità. Identità rispetto a cosa? A chi? Al tuo passato che eri? Al tuo presente che è uno sberleffo storto e mal compreso? Identità rispetto a una memoria che ti dicono essere frastagliata e rimpastata, interpretata oggi a tuo – a loro dire – con gli occhi dell’adulta. Ma allora a cosa siamo identitci? A una scrittura su pagine quadrettate che pure quella (pure quella!) pare essere vittima della patina del tempo, della sovra-interpretazione? Così ti fidi dei vestiti che compravi, dei libri che ti piacevano, delle parole sottolineate, dei film che vedevi e rivedevi, delle volte che hai detto no, delle volte che hai strappato domande con risposte a crocette, delle volte in cui hai preferito il chiuso di una stanza, all’aperto della loro vita. Ma anche quello è volubilità? Dunque cosa siamo? Il frutto di un’interpretazione fallace di un passato che non esiste? A questo non credo.

Siamo, forse, un unico principio. Una domanda scritta dietro al collo, quella che non riusciamo a leggere e che ci guida. Un enjeu. Non so cosa sei, non so se ti ho trovato nelle righe di un plan che non funziona e faccio e rifaccio senza sapere dove vado. Non so se ti ho trovata nel mio non farmi avanti per pudore e per non fare del male a chi ci tiene davvero, nelle parole non dette, le lacrime e le unghiate trattenute per non dare delusioni troppo grandi. Non so se sei nelle corse a controvento, a ora tarda, nel romanzo che non è andato da nessuna parte, nel teatro di cartapesta con pochi mezzi, i rossetti con una punta di blu, scrittura contro teoria, thé contro alcool, silenzio contro grido, grido contro ingiustizia.

Non lo so: ci sei, ma non ti vedo. Batti un colpo?

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Scivolare sulla S

Lavori per giorni a una comunicazione che si allontana, trasversalmente, dal tuo ambito di studi. Ci lavori al mattino e la sera tardi, prima di andare a correre quando è già buio, mentre le verdure si scaldano sul fuoco e hai i capelli bagnati e senti freddo alle gambe. A Lyon l’estate non è ancora arrivata. Ci sono temporali subitanei, due volte al giorno. Al mattino, d’improvviso, l’azzurro cobalto si copre e scoppia l’orage. Poi la sera. Si prepara per tutto il pomeriggio, il vento si alza, gli ombrelloni sbattono come in una danza scomposta. E arriva: scarmiglia gli alberi, inzuppa i piedi infilati in sandali improbabili, indispettisce i turisti che non sanno mai come vestirsi.

© Andrea Ucini

Tra un temporale e l’altro ho lavorato alla mia comunicazione per un convegno lontano. Mi dicevo che sarebbe stato bello – per una come me – parlare di Sessantotto e poesia, e di Elsa Morante, e di un umanismo postmoderno capace di rimettere al centro il valore della “realtà”. E’ qualcosa che mi ha toccato molto quest’anno: essere sinceri? Mentire? Salvarsi la pelle e uscirne puliti o rovinare nel fango e uscirne onesti?

Dieci anni, quasi, sono passati dalla prima volta a Lyon. Immagino nella mia testa, mentre corro, di creare un collage prima/dopo. Io che sono una ragazza e poi una donna, la mia pelle liscia e le mie rughe di adesso, Lyon sbiadita e Lyon splendente, i contorni dei fiumi che sono cambiati, la collina stinta e ora vivissima, un nuovo grattacielo a forma di gomma che riflette il colore delle nuvole.

Ieri, nel letto, sfinita da una giornata di scrittura e di pensieri, dopo aver visto Festen a teatro convincendomi che il film era molto meglio (e deplorando l’uso delle nuove tecnologie sul palcoscenico) ho voluto sbirciare. Vediamo cosa ho scritto, alla fine. Vediamo se ho fatto degli errori. Lo sapevo che era tardi, che la comunicazione era già stata inviata, ricevuta, “grazie le faremo sapere”. Lo sapevo che era una tortura inutile, un masochismo che non avrebbe portato nulla di buono. Il titolo. Il titolo di Elsa Morante tradotto in francese. Mancava una S. S plurale, non “le” ma “les”. I ragazzini, non il ragazzini.

Resto imbabolata, a fissare quella S che non c’è, la parola monca, che ora – d’un tratto – mi appare in tutta la sua evidenza. Averci lavorato per giorni, aver lasciato decantare: à quoi bon? Dieci anni sono passati dalla mia prima volta a Lyon. Poi ci sono state delle pause, certo. Ma ora, scivolando sul quella S, mi chiedo: quanto tempo? Quanto tempo ancora per non rovinare sulle parole? Impossibile. Si prepara un temporale, il vento scuote il tendaggio in un ballo sottile. Fra poco pioverà.

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“Un minuto di grazia tra sempre e mai”. Il desiderio secondo Aciman

Forse, ci dice André Aciman, desiderare qualcuno vale più di un’intera vita.

Chiamami col tuo nome (Guanda, 2008) narra la vicenda di Oliver, ventiquattrenne americano, giovane promessa della filosofia, che passa l’estate in Italia, ospite del professor Perlman che da anni offre ospitalità a dottorandi in fine tesi. In cambio di vitto, alloggio e una grande casa dove scrivere in santa pace, gli studenti dovranno aiutare l’insegnante in qualche attività di ricerca, poca cosa se confrontata alle sei settimane di vacanza in riviera. Per Elio, figlio dell’insegnante, è la puntuale scocciatura dell’estate: Oliver è l’ennesimo studente venuto a usurpargli la stanza, l’inquilino con cui condividere il bagno e la terrazza. Ma da subito, vedendolo scendere dal taxi, una camicia azzurra, “svolazzina”, Elio è rapito. Forse, si dice, è cominciato tutto da lì, da quel cappello di paglia, i bottoni aperti sul petto, occhiali da sole e “pelle ovunque”, i passi sulla ghiaia e quelle caviglie.

Elio passa giorni nell’indolenza, come in uno stato di veglia allucinata. Ci sono le letture precocissime, la scrittura della musica, è un ragazzo sveglio, dall’intelligenza sfrenata. Suona il pianoforte, conosce greco e latino, porta i suoi diciassette anni come fossero la traccia di un lungo apprendistato. Sbircia Oliver da sotto gli occhiali da sole, lo scruta, sognando tutto di lui, si abbarbica a pensieri inconfessabili, il desiderio gli divora lo stomaco e la lingua, come se lo avessero preso “a calci nella pancia e risucchiato il tessuto polmonare vivente fino all’ultimo brandello e prosciugato la bocca”. È un desiderio avido, feroce, un’ossessione che brucia –  “perché fuoco fu la prima parola, e anche la più facile, che mi venne in mente” – che non dà tregua, eppure dolce, accompagnata dall’inconsapevole presagio che quei giorni d’attesa, la luce attraverso le foglie, le lunghe notti in apnea, nel letto, senza muoversi, avviluppato dal sogno-desiderio che la porta si apra e che lui compaia, altro non sono che memoria già scritta, nostalgia di un tempo non ancora vissuto eppure già svanito.

Elio ci prova a trattenere i minuti, le settimane di desiderio snervante, gli scenari sessuali costruiti attorno a quel corpo atletico, lo  “sguardo d’acciaio”, i talloni, il torace, l’increspatura del costume. Come se un essere vivente, di fatto, potesse risolversi tutto lì, nei contorni netti di un’anatomia di odori e parola, sguardi, movimenti. Oliver che sfugge, che pare distante e vagamente cortese, che saluta tutti dicendo  “Dopo!” come se niente gl’importasse, se non se stesso, la sua tesi su Eraclito, le corse al mattino presto e le lunghe nuotate. Oliver che accende gli umori di tutte le ragazze del paese, che tutti amano e a tutti sfugge, Oliver atteso a colazione, divorato mentre legge come una lucertola a bordo piscina, Oliver e i muscoli sodi, le lunghe sorsate di succo all’albicocca e le uova alla coque deglutite in un batter di ciglio. I giorni passano in una macerante corsa contro il tempo: Elio lo sa. Non si può fermare la macchina da presa, l’ossessione che sia troppo tardi è una spina conficcata nel petto, nella preghiera che quelle ore, trascorse accanto a Oliver, restino, si facciano di ghiaccio, si fermino senza proseguire più. Che la vita si condensi in una lunga giornata estiva, senza fine, fatta di studio, parole, camice azzurre svolazzanti, costumi da bagno per ogni stato d’umore, sonate al pianoforte e quegli occhi blu, quel petto. Oliver.

L’amore tra i due si espleta che è già tardi. Nasce dal primo istante ma è trattenuto ai limiti dell’estenuazione, permane inesploso fino alla collina di Monet. Dove Elio, dopo una passeggiata in bicicletta, al colmo dello strazio, traboccante e vorace, spiega a Oliver – nella quiete del suo posto segreto – che forse sì, c’è dell’altro, infinitamente altro. “Perché mi stai dicendo questo? – Perché pensavo dovessi saperlo. – Perché pensavi dovessi saperlo. – Perché voglio che tu sappia!” Comincia con un accenno velato, Oliver azzarda un bacio fugace, Elio gli si precipita addosso, famelico: “Dovevo capire”. Prosegue, l’amore, nell’ex camera di Elio, ora di Oliver, a mezzanotte, dopo un’agonia lunga settimane, e Aciman infiamma la penna, non tralascia dettagli di un amore che è dolorosissimo e sfacciato, senza freni, traboccante, avido e impudico e meraviglioso. Oliver e Elio, che si consumeranno la carne, le ore di sonno e di veglia per dieci giorni, una manciata di ore, vissute con la clessidra e con la strana convinzione di poter “fermare l’attimo” rubando sul futuro per poter vivere il presente. Poi l’estate finirà, Oliver prenderà l’aereo, lui, che era stato per Elio “me più di me stesso” e al contempo padre, amico, fratello, amante, figlio. Ci penserà il Professor Perlman a dare una buona parola, cogliendo il senso di quell’amore, invitando il figlio ad abitare la sofferenza come una possibilità, un mezzo per conoscersi e trattenere il ricordo, senza inaridirsi, evitando il rischio sentimentale di finire “in bancarotta a trent’anni”.

Si incroceranno, un po’ per caso un po’ per volere, nel corso del tempo. Brevi incontri formali: Oliver distaccato quasi come agli inizi e Elio, attonito, a osservare lo scorrere del tempo, presagendo già la beffa del caso. Due vite identiche, separate dall’idiozia del “dover essere”. Pare uno scherzo del destino. Un matrimonio, dei figli, una cattedra in America. Un matrimonio, dei figli. Era questa la vita voluta da Oliver? “È stato come un coma, ma preferisco chiamarla una vita parallela. Suona meglio”. Il perché non è dato saperlo, ma Elio capisce, durante un aperitivo sulle rive del fiume, che la vita avrebbe potuto e dovuto essere diversa, che non è tardi, anche se di anni ne sono passati quindici, anche se Oliver ha due figli e una vita rispettabile, borghese, tutte le cose al posto giusto. Eppure vorrebbe dirgli che “questa cosa che non fu mai ancor ci tenta”, che varrebbe la pena, ora, scompaginare i piani preordinati, lanciare in aria il mazzo di carte e urlare: abbiamo scherzato, riprendiamoci le nostre vite! Invece no, non si può riannodare il nastro, i giorni in riviera rappresentano un vago bruciore seppellito nella memoria, un’“apparizione di lucciole in un campo d’estate” ma, ripete Elio, “tornare indietro è falso. Andare avanti è falso. Far finta di niente è falso”. Non c’è soluzione. Non per due esseri che si chiamavano col proprio nome, non quando una vita è riavvolta attorno a una pellicola imperfetta, sfocata, con un grande bagliore verso il centro: il punto morto dove tutto avrebbe potuto essere e invece non è mai stato.

[Articolo apparso su Charta Sporca]

 

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Gli altri

Three Studies for Figures at the Base of a Crucifixion  © Francis Bacon 1944

Gli altri camminano per strada e si ammassano alle porte del métro. Si bloccano all’uscita delle scale mobili, frenano per i marciapiedi guardando allucinati i propri telefoni: un tamponamento umano che è ormai cifra dell’esistere.

Gli altri sbandierano contrastanti verità personali, minacciano implicitamente il prossimo additandolo di cattivi comportamenti ma sono i primi a essere umorali, scostanti, imperterriti nei propri comportamenti tossici, nelle  litanie personalistiche da quattro soldi, nella malafede che sguazza nel pantano, che non s’interroga e beve a grandi sorsate la propria stupida mediocrità.

Gli altri che ci affiancano sui mezzi pubblici, i colleghi di scrivania, di pianerottolo, di pianobar, i colleghi che incrociamo nei corridoi, tra le sedie sgangherate di qualche dismessa istituzione pubblica, gli altri che girano il capo, che lo ri-voltano per convenienza, che piangono lacrime di coccodrillo e sputano veleno, e poi ritornano angelicamente all’ovile, se il favoruccio è stato fatto, il posticino è stato salvato, la giustizia personale integra. Tutto va bene.

Gli altri. Che hanno il potere di toglierti il saluto, di guastarti la giornata, di inficiarti la pausa di metà mattina, di rovinarti la serata, la nottata con le loro squallide manovrine di poco conto, i loro sordidi apparati di provincia perduta, il loro anti-impegno, anti-differenzialismo, la loro anti-coscienza, il loro essere nel mondo per salvare solo il proprio salvabile dimenticando che il mondo, che gli altri, siamo noi, insieme a loro, nessuna differenza, tutti parte dello stesso inutile quotidiano.

Gli altri che nella loro banalità soffocano le migliori ambizioni, attossicano il vento di pensieri poco puliti, gli altri che si beano delle loro conquiste ridicole, dei loro podi da ultimi della classe, dei loro successi planetari che interessano il mercato, il capitalismo più nefasto, la ricerca elitaria di un sapere che si guarda solo vivere, che non considerano gli altri-altri, quelli che stanno – in questo caso – nel gradino più basso e mestamente fanno il proprio dovere di piccoli uomini soli, di donne sole, senza un perché, una protezione, un padrone, un maestro.

A tutti questi altri che siamo noi, a questo mondo impazzito, narcisistico fino alla morte, imbevuto di immagini personali che appesantiscono il web mandando in cancrena il senso del pudore, a questi altri che ci guardano allo specchio, a questi amici non amici, colleghi non colleghi, capi solo per il gusto di dire “questo sì, questo no”, a questa gente tutta, a noi, tutti noi, ammassi di carne e di ossa, io vorrei dire: pietà. Per favore: un po’ di silenzio.

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“Tutto può frantumarsi”: L’incesto di Christine Angot

“Non ho il diritto di citare nomi, l’avvocato me l’ha proibito, né nomi né iniziali”. Christine Angot è lapidaria. Feroce. Ha una narrazione senza respiro: le frasi sono spezzettate, si sfasciano alla lettura. È un racconto a singhiozzo, dal titolo inaccettabile. 

Kneeling Girl, Resting on Both Elbows © Egon Schiele – 1917

Christine Angot pubblica L’incesto a quarant’anni, nel 1999, Edizioni Stock, Parigi. Ha già una carriera da scrittrice – o da scrittore, come direbbe lei, contro la sessuazione della grammatica. Scrive da quando ha quindici anni: Non dirmi che sono brava, perché potrei fare una follia, abbandonare tutto soltanto per questo, scrivere. Ha otto libri alle spalle e in loro frasi, incisi, dove l’avventura – l’avventura indicibile – ritorna a brandelli. Poi, nel 1999, esce un libro: è uno shock. 

“Ho toccato il fondo, con la struttura mentale che ho, incestuosa, mischio le cose, tutto ciò ha dei vantaggi, le connessioni che altri non fanno, ma il troppo è troppo.” È proprio perché si è toccato il limite, sfiorata la catastrofe dopo una relazione omosessuale con MCA, che Christine, eterosessuale convinta, madre di Léonore, sceglie di dire. Di spiegare il perché della sua follia, delle crisi di pianto e di rabbia, del sabotare tutto nonostante l’amore – impossibile – per il corpo di un’altra donna. Ha sabotato il Natale, il regalo che MCA le ha fatto durante un viaggio a Roma. Ha sabotato i ristoranti, le giornate di sole e le strade “nere di gente”. Ha sabotato perché altro non è, a detta sua, che una pazza, un cane, una “nullità, un niente, il minimo di un essere umano […], un minuscolo scrittore”. Con un incesto nel proprio passato “non riesco a sentirmi qualcosa, un corpo, una vita, il luogo dove vivo, le angosce, le grida, le lacrime”. L’incesto riemerge a quarant’anni. Ritorna alla testa e nella gola per distrugge le vacanze natalizie, le passeggiate a tarda notte, le letture pubbliche che lei, Christine Angot, personaggio e scrittrice, compie nei teatri di Francia. 

Raccontare è impossibile, il linguaggio non può contenere, eppure, sembra dirci Angot, la scrittura placa. Non redime: non cancella né passato, né agonia. Permane il sentimento di colpevolezza e immondizia, eppure è un balsamo che aiuta a canalizzare l’orrore. L’incesto del libro è presente dalle prime righe come una devianza, una modalità dello stare al mondo, una marque, dice Christine, una stigmate incisa nella carne, una virgola – quelle virgole, verghe, che lei non riesce a mettere, che mette male, che sono forme di potere, falliche, affilate – ma non è mai nominato per intero, mai raccontato. La descrizione arriva a fine volume, quando la storia d’amore con MCA è finita, dopo che è stata sabotata, soffocata, e a Christine non resta che la parola, la scrittura, una penna e dei fogli per cercare di spiegare. Perché, ci confida, prima o poi tutti gli scrittori sono obbligati alla verità. Al racconto della tara. E forse, dall’Incesto in poi, non si potrà fare altro che scomodare il passato, rigettandosi nella pagina per ciò che si è: una nullità, un cane in cerca del padrone, un’incapace. 

L’incesto è l’incontro tardivo con il padre, a quattordici anni. La figlia “priva di interesse” viene infine riconosciuta e acquisisce il cognome di lui. Christine è emozionata, la madre amplifica l’incontro: “come vedi non sono andata a prendertene uno qualunque, di padre”. E il signor Angot è certo straordinario, un Jean-Louis Trintignant meno bello, ma più elegante. Un uomo colto, che fa complimenti, che parla trenta lingue, abita Parigi e non la provincia, che è sposato, ha un’amante studentessa, due figli piccoli – i figli riconosciuti – e che in Christine (ri)trova la figlia amatissima. Così ci sono le gite, i ristoranti, i pasti copiosi di vino e cipolle e carne pregiata, i riposi pomeridiani, le sieste. Nel buio, arrivano le prime richieste: “vieni qui, mettiti sotto le coperte, vicino a papà”. Ci sono le carezze, prima, baci, tanti baci, baci ovunque, baci alla bocca, lingue, baci sulle cosce, tra le cosce, “hai un odore delizioso, se ti bagni è perché ti piace, perché mi ami, perché anche io ti amo, dimmi che mi ami. Ti amo papà”. 

È una lettura crudele, cadenzata da scene chirurgiche, precise fino al disgusto. Come la volta delle clementine. Aveva comprato clementine per obbligarla a mangiargliele addosso. Sul sesso. O quella volta in Savoia, in una chiesa, chiusi nel confessionale: l’inizio di una lunga fellazione terminata poi più tardi, in auto. “Continua, non staccarti da me”. E a Nancy, a cercare di corsa una farmacia, vaselina, e gli anni, i lunghi anni di sodomia perché, a detta di lui, le avrebbe fatto bene, era un privilegio, e lei doveva capirlo, e non piangere, non avere male, non fare quella faccia al ristorante, quella faccia distrutta, che disturba, che non è degna. Il rapporto è un rapporto di potere, ma non occorre dirlo, non ce n’è bisogno. Christine non è mai vittima, non crede al rapporto vittima-carnefice. È durato dai quattordici ai sedici anni. È ricominciato a ventisei, quando lei stava divorziando, e il marito dormiva in salotto – “ma vi ho sentito, ho sentito il materasso che cigolava” – e il padre è venuto a renderle visita, si è introdotto nel letto – ancora, dopo anni – e lei ha accettato. “Dorme nel mio letto. Mi penetra”. 

Le parole non bastano: Christine lo sa. Si cerca una strada, ma per parlare si deve essere in due, pronti ad accogliere. Non vuole suscitare pena – ma sa che tutti proveranno pena – non vuole commuovere, non vuole colpire. Vorrebbe dire ma mancano i mezzi. Ci prova, la sua scrittura è catastrofe: una lunga rincorsa contro un muro di pietra, testate a vuoto, sanguinamenti. Viene in mente Beckett quando implorava: Cap au pire! Dritti al peggio, dritti verso il peggio. Avanti tutta. Peggio tutta. 

[Articolo comparso su Charta Sporca]

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