Scendendo verso il basso

Dino Buzzati, Sette piani – Artista sconosciuto

Dopo un giorno di viaggio in treno, Giuseppe Corte arrivò, una mattina di marzo, alla città dove c’era la famosa casa di cura. Aveva un po’ di febbre, ma volle fare ugualmente a piedi strada fra la stazione e l’ospedale, portandosi la sua valigetta. Benché avesse soltanto una leggerissima forma incipiente, Giuseppe Corte era stato consigliato di rivolgersi al celebre sanatorio, dove non si curava che quell’unica malattia. Ciò garantiva un’eccezionale competenza nei medici e la più razionale ed efficace sistemazione d’impianti. 

Dino Buzzati – Sette piani

Così Giuseppe Corte entra in ospedale e sta bene. Gli dicono che deve togliersi quella cosa lì, che quando sarà tolta, zac! sarà tutto finito e potrà tornarsene a casa in modo tranquillo, farsi i suoi giorni di malattia, non pensare più a niente e vivere poi sereno, una volta che si sarà rimesso del tutto.

Giuseppe Corte, che è un importante uomo d’affari, pensa di poter affrontare la malattia come ha affrontato le mille difficoltà della sua vita, prendendosi tutto sulle spalle, caricandosi come un mulo nella convinzione di essere invicibile, che sarà una passeggiata, che fra un po’ di tempo «ce la rideremo tutti quanti, alla faccia del brutto male». Ma la clinica – rinomata, tirata a lucido, con personale qualificato – funziona come una spirale e non lo sa, il buon Giuseppe Corte, che una volta entrato, per una ragione o per l’altra, lo convinceranno a restare, gli parleranno di piccoli dolorini, di questioni minuscole, certamente benigne, grandi come una lenticchia, che figuriamoci, di casi così ce ne sono tanti, e non sarà certo il suo a fare eccezione.

Giuseppe Corte, entrato sano nella clinica, se non per quella piccola cosa lì, non immagina che con il passare dei giorni, diventando sempre più magro, indebolendosi, cercando tuttavia di mangiare e restare in forze, scivolerà piano piano, inconsapevolemente, nella stanzina buia del piano uno, quella dove altra possibilità non c’è, se non un sonno sempre più spesso, color del piombo e senza luce.

Pubblicato in Blog | Lascia un commento

Impossibile è dire

In questi giorni di corse e notti corte ho pensato poco.

New writers generation – La Repubblica, © Emiliano Ponzi

Ho pensato, sì, ma non come avrei voluto, non battendo le dita sui tasti, non scrivendo: né qui, né sulla carta. Però, correndo, contro il sole nella pausa pranzo o a sera tardi, quando ormai faceva buio per le strade, ho potuto riflettere ad alcune cose accadute durante le giornate. A certi visi guardati a lungo, mani alzate, mezzi sorrisi, voci spaventate. I miei studenti.

Ho pensato alle parole che diciamo, alle riunioni di lavoro, al tentativo di riuscire a comunicare – usare una lingua per farlo – e impantanarsi nell’incomprensione, nell’interpretazione che non riesce, oppure – peggio! – nella sfumatura non colta da altri, detta male da me. O non so più.

Tutto questo è per dire che in questi giorni, in questa rentrée di settembre dove le parole hanno dominato tutto: contesti, ore di lezione, incontri e scontri, ho misurato ancora una volta l’impotenza del riuscire a dire. Mi sono chiesta quali soluzioni apportare, se ci fosse un modo per stabilire un ponte, per costruire una comprensione che non è mai data in principio ma va sempre edificata quasi, direi: guadagnata.

Non so cosa sia giusto. N. sostiene che a volte è meglio tacere, che il silenzio svolge un ruolo di protenzione anche quando sarebbe meglio parlare. Io non so se voglio arrendermi alla prigione delle parole, arrendermi al fatto che tutto possa essere tagliuzzato, rigirato, rimasticato. Perché il punto non sta solo nelle frasi, nelle costruzioni o nei toni. Anche i gesti, gli abbracci, le risate, i tentativi di vicinanza umana possono essere strumentalizzati e fraintesi. Calpestati per un profitto diverso. Quale? Non so dire.

Ieri, una maldicenza, una storiella inventata sul mio conto, ha avuto il potere di pietrificarmi, togliendomi completamente l’uso della parola. Tremavo. Un po’ è stato lo spavento, l’annichilimento, ma più di tutto il sentimento di impotenza. Come fare per comunicare all’altro ciò che siamo senza il problema – l’ostacolo! – di una sovrainterpretazione?

Non è possibile. Allora non ci resta altro che seguire noi stessi, le modalità che ci appaiono più proprie. La mia modalità, quella che mi riesce facile (non meglio, facile!) è quella del dialogo. Del cercare un incontro attraverso l’uso di questa parola qui, che non va mai da nessuna parte (forse) ma che nel tentativo di nascere, di esistere tra due soggetti, traduce un più profondo desiderio di vicinanza e di calore umano.

«Le poème n’est point fait de ces lettres que je plante comme des clous, mais du blanc qui reste sur le papier». Paul Claudel

Pubblicato in Blog | Lascia un commento

Storia di una nascita: “Le parole per dirlo” di Marie Cardinal

© Erich Heckel – Fränzi sdraiata (1910)

Il libro è dedicato al “Dottore che mi ha aiutato a nascere”. Marie Cardinal apre così il suo volume Les mots pour le dire – Le parole per dirlo – pubblicato nel 1975 in Francia e tradotto in Italia per Bompiani. Lo ripeterà nel corso degli anni, nelle interviste scritte e in quelle trasmesse alla televisione quando con sigaretta alla mano e taccuino steso sul tavolo, instancabile nel gesto della scrittura, sosteneva dinnanzi a giornalisti sbigottiti di essere nata nel 1961: l’anno del suo primo incontro con il “petit docteur”, l’anno d’inizio della sua psicanalisi, l’anno dei suoi trentatré. Perché il libro, a metà tra l’autobiografia e l’autofiction, narra di questo: è il diario di un’analisi, di un percorso iniziato sull’orlo della follia dopo che Marie è scappata da una clinica psichiatrica. Ha schivato l’ottundimento da farmaci, sputato l’unica “droga” capace di frenare le emorragie. Si è scacciata da un letto d’ospedale, senza forze ha attraversato il giardino della clinica, è evasa con la complicità del marito aggrappandosi all’unico lembo di lucidità rimastole: salvarsi.

Il percorso inizia nel sangue, in un bagno ferroso di sangue, ché Marie soffre, inspiegabilmente, di enormi perdite vaginali. Perdite costanti, massicce, imponenti e mostruose, perdite che le impediscono di andare al lavoro – è insegnante – di occuparsi dei suoi tre figli, di pulire la casa, fare la spesa, essere una buona moglie che fa l’amore con il marito la sera, nonostante il peso della giornata, la stanchezza, il disinteresse, la fatica di vivere. Le perdite non hanno una causa fisiologica. Forse sì: un ginecologo, una volta, le ha diagnosticato un “utero fibromatoso” e quell’aggettivo, “fibromatoso, fibromatoso!” ripetuto nelle notti di sangue e angoscia, invece che essere la chiave della guarigione si fa porta dell’inferno. Fibromatoso è il suo presente, fibromatoso è il giorno che si leva e non ha senso, fibromatosa è la parola che non esce, che si impiastriccia nella fatica dell’appannamento mentale. Perché Marie non è più se stessa, il suo corpo non la segue, è una gabbia vischiosa, molliccia, senza nerbo e senza forze, appesantita dai farmaci, dalla saliva pastosa e il sapore di ferro nelle narici. Tutto le è impossibile: alzarsi, lavarsi, vestirsi, dire buongiorno. Tutte le azioni, i gesti, i visi incontrati durante la giornata hanno un denominatore comune: sono niente, fatti di niente. Non c’è differenza tra figli, estranei, colleghi e genitori. L’altro si profila nell’indifferenza, quel che conta è solo “la chose”, la cosa, la malattia, il male che non ha più etichetta, che si annida nell’odore di morte, nelle chiazze rosso cupo che si allargano a vista d’occhio, nei rivoli che scendono lungo le gambe, indecenti, scomposti. Il sangue è sulle poltrone delle sale d’aspetto, sugli strapuntini unti degli autobus, i sedili di pelle dell’auto, suoi divani inamidati di amici insopportabili e ancora sulle sedie di vimini, gli sgabelli, anonime panchine.

È così, esangue, dopo una notte di lotta, che Marie inizia la sua psicanalisi. Il patto con il dottore è chiaro: nessun farmaco, nessuna droga. “E se il sangue si presenta? – Lo lasci scorrere.” Non sarà solo il sangue a scorrere e poi, misteriosamente, a sparire. Saranno le parole, le parole per dire “la cosa, per dare voce a un presente di sconfitta, un presente che è solo spavento, inazione e impotenza. Marie scava, il percorso durerà sette anni. Sette anni di guerra, scanditi da un combattimento quotidiano: quello contro se stessa e i propri fantasmi. Sette anni cuciti dalla scrittura (“i tre incontri a settimana con l’analista non mi bastavano. Per questo ho iniziato a scrivere”), anni di passi avanti e di stasi, di sabbie mobili, di rimasticamenti, di schianti contro l’inconscio e le sue rovine. Prima c’è il periodo della parola, del raccontare il presente, del mettere nome ai dettagli conosciuti: i traumi di tutti i giorni, le disperazioni, l’infelicità senza saliva, senza spasmi, l’apatia. Poi arriva il silenzio. Lunghi incontri dove Marie, inerte, sul divano, con il capo voltato, sta zitta, sospira, a volte si addormenta. La terza fase è quella della rabbia: giorni e ore di ira cieca, spavalda, volgare, di incontri saltati senza preavviso “ma da pagare ugualmente”, insulti contro al dottore “lei è un tipo disgustoso che passa le sue giornate ad ascoltare le porcate degli uni e degli alti. Ma è lei a provocare queste infamità. Lei è un essere abietto”, di odio e ancora odio.

E poi la porta si apre, la rabbia si trasforma in singhiozzi e le parole chiave, le parole che il dottore suggerisce come fossero sassi, pochi sparuti sassi utili per attraversare un fiume in piena, permettono l’incontro con il sommerso. Il passato interrato in un angolo del cervello è un forziere di immagini infantili, sfocate, ch’eppure ritornano nitide. È una giornata di sole, “sono molto piccola, una bambina che riesce appena a camminare. Passeggio in una grande foresta con la mia nutrice, c’è mio padre. Ho bisogno di fare pipì, la tata mi ha nascosto dietro a un cespuglio”, oppure è il treno, il ricordo di un treno, l’ossessione della madre per le malattie, l’alcool a novanta gradi per disinfettare porte e sedili, il rumore delle rotaie, l’angoscia d’essere risucchiati, polverizzati dalla velocità. O è il disgusto di un passato di verdura, l’urto della nausea, la paura d’essere rapida dall’“uomo dei vestiti”, un rumore ossessivo contro il vetro, il ventre che si stringe sferzato da un pugno di pietra, fiotti e fiotti di vomito, l’obbligo di rideglutirselo a cucchiate, tra le risa dei parenti, sotto l’occhio severo di una madre impassibile: “questa bambina è fuori controllo”.

Non serve mascherare la realtà, incipriare le parole, renderle convenevoli, interessanti, degne di nota. Il lavoro di Marie passerà per l’accettazione del niente, dello sbaglio, del disinteresse che porta comunque significato. Accettare la vita nelle sue manifestazioni, saper riconoscere il pericolo, saperlo trasformare, mettere paletti contro il male che proviene dagli altri, sapersi salvare a discapito del prossimo, pensare a se stessi prima per amare meglio poi. Amare di più: essere donna, scrittrice, madre, moglie, una figlia non succube, non adorante, non crudele, semplicemente lucida. Il riconoscersi in quanto soggetto passa dal riconoscersi in quanto donna. Conoscere il proprio corpo, non avere orrore delle fragilità, dei tessuti molli, delle cavità senza protezione, degli angoli bui pieni di polvere che fanno parte di noi e sono il nostro passato e, sembra dirci Cardinal, anche il nostro presente. Senza un’adeguata consapevolezza verso la fibra che ci costituisce – carne, sangue, muscoli e tanto cervello – è impossibile l’accettazione. Senza accettazione non c’è identità, presente e futuro, non c’è corpo, né respiro. Non c’è esistenza. Nascere è possibile dunque, una seconda volta, forse l’unica che conti. Nascita che significa acquisizione del proprio io. Senza spavento.

Articolo pubblicato per Charta Sporca

Pubblicato in Articoli | Lascia un commento

Addio tristezza, buongiorno tristezza

 

Jean Seberg in Bonjour tristesse di Otto Preminger (1958)

 

“La gloria, l’ho conosciuta a 18 anni in 188 pagine, è stata come un’esplosione di grisù”. Diceva così, Françoise Sagan, del suo primo libro, Bonjour tristesse, pubblicato nel 1954 quando “l’affascinante piccolo mostro” – l’espressione è di François Mauriac – appena maggiorenne, si affacciava sull’abisso della notorietà. Un successo che le costò caro e che pagò per tutta la vita, tra alti e bassi, pubblicazioni felici – Un certain sourire, secondo romanzo, riscopre le irriverenti atmosfere del primo – e scivoloni letterari come Un chagrin de passage, massacrato dalla critica in un periodo – il 1994 – particolarmente duro per l’autrice per via di certi gravi problemi con il fisco, andirivieni tra una clinica e l’altra, abuso di alcool, dipendenza dalla droga, e una menomazione interiore a seguito di una vita sentimentale turbolenta e spesso infelice.

Ma non è la Sagan degli eccessi, delle giocate sconsiderate nei casinò della Costa Azzurra, non è la Sagan intontita dagli oppiacei, con i bleus à l’âme – i lividi all’anima – che ci interessa riscoprire, ma quella fresca, nient’affatto ingenua dei diciassette anni. Il diavolo biondo dallo sguardo esistenzialista, sigaretta tra le labbra e capelli corti, corpo androgino, espadrillas chiare, marinières con taglio maschile. La Sagan che contemplò, tra una difficoltà scolastica e l’altra – ma restava, era, una grande, voracissima lettrice – la storia di Cécile, diciassettenne parigina in vacanza a Juan-les-pins con il padre Raymond, vivace donnaiolo, e la di lui compagna Elsa, amante giovane e un po’ sciocca. A disturbare la quiete delle vacanze di luglio, all’ombra di una grande villa “bianca, splendente […] costruita su un promontorio dominante il mare e nascosta alla strada da un bosco di pini” è Anne, amica di vecchia data della madre di Cécile. È una quarantenne misteriosa e carismatica, dalla grande personalità, eppure schiva, moderata nei gesti, cogitabonda e quasi ieratica nelle sue pose pensose, assorta a guardare il mare, a fumare in silenzio al mattino, avvolta da abiti chiari, mentre Elsa, l’amante giovane, sprizza in giovinezza e rossore. Si è scottata, è chiassosa, ingenua, trepidante di mondanità, poco misteriosa. E Raymond cede, non resiste alla voglia – alla sfida – di conquistare la più matura Anne. Così l’idillio si spezza, Elsa scappa di casa, Cécile si ritrova imbrigliata tra le spire di una nuova “madre sostituta” che la vuol far lavorare durante l’estate: deve recuperare il suo debito formativo in filosofia e ottenere il diploma in settembre. Non può frequentare il malizioso Cyril, muscoli tesi e abbronzati, un’ottima intesa fisica, un corpo da scoprire: i primi palpiti, i primi lunghissimi baci, i primi amori all’ombra dei pini, nascosti da una natura rigogliosa, tra volontà di perdersi e desiderio di scoperta.

Così Cécile, che sprovveduta non è, che si annoia, che prende tutto con la disinvolta noncuranza con cui spesso vengono dipinte le parigine, escogita un piano senza nemmeno crederci fino in fondo, manipolando quasi contro voglia Anne, il padre, Cyril e la malcapitata Elsa. Prende in giro tutti per noia, si diverte a usare le persone come fossero i flaccidi burattini di una storia improbabile concepita in un pomeriggio immobile. Lo fa per testare se stessa, ben sapendo che non ha niente da testare, che il tutto non sarà altro che una sciocchezza, una perdita di tempo, una bravata senza convinzione. Niente a che vedere con il bel periodo, i due anni di giovinezza e scoperta passati con il padre vedovo, le mondanità, gli aperitivi in terrazza, le occhiate d’intesa su qualche possibile conquista da analizzare intellettualmente a due. La testa di Cécile è sempre altrove, il suo carattere non è ancora formato eppure presenta già picchi di un’irriverenza coraggiosa, impudica e infantile al contempo. È capace di toccare il fondo, sa disprezzarsi con un cinismo impensabile per la sua giovane età: “Non mi piaccio. Non mi amo, non mi sforzo nemmeno d’amarmi”. Cécile che non sa pensare, che si dà arie da donna impossibile ma che si sente vuota, Cécile che non accorda “importanza a niente” ma che sa godere del proprio corpo, sa approfittare del piacere che può darle un uomo e che in nome del godimento è pronta a mentire, a fingere un amore che non c’è, un interesse che è solo carne, solo sangue, respiri e torpore. È la stessa ragazza esile che si nutre di caffè, succhi d’arancia e whiskey, che s’annoia, dorme fino a tardi ma è capace di spaccarsi la testa su una frase di Bergson per un intero pomeriggio, che sa maledire ciò che non approva e che al contempo è vittima del rimorso. E poi volta di nuovo pagina.

“Siamo soli e infelici” le ripeterà suo padre, ma malgrado i drammi e le morti la vita sa ricominciare. Può sempre ricominciare per gli spiriti come Cécile, è ricominciata tante volte per Françoise che è sopravvissuta all’incidente del 1957 a bordo della sua Aston Martin, all’intossicazione da Palfium 857 per attenuare i dolori, alla morte dell’amato fratello Jacques, del suo grande amore Peggy Roche, amica, amante, confidente, musa capace di proteggerla e di vegliare su di lei, di aiutarla, sostenerla nella crescita del figlio Denis Westhoff e nelle fatiche quotidiane, calmarla dal terrore della solitudine. Françoise, che forse non si è mai amata del tutto, che vedeva nella scrittura, nel bisogno di scrittura, la sola “verifica, la sola prova” di se stessa.

Scrittura che era il timone a cui aggrapparsi quando il mare si faceva arrabbiato e l’alba pareva lontana. Ché le notti di Françoise erano notti corte, bianche e ubriache, attraversate dall’angoscia del non farcela più, dall’idea di un nulla che avviluppa, con la giovinezza che si allontana sempre più, così l’innocenza bionda delle sue protagoniste, lo sguardo furbo di Jean Seberg-Cécile immortalata da Otto Preminger, quella giovinezza sconsiderata che sapeva di avere tutto e, malgrado il successo, covava già la serpe della sconfitta, della perdita senza riparo, di una solitudine che un giorno o l’altro, sorniona, sarebbe arrivata e avrebbe scardinato tutto: i giorni di sole e di mare, le corse a velocità folle, i tè pomeridiani bevuti in qualche terrazza nizzarda, i tramonti infiniti e lunghi sulla spiaggia, i piedi nudi posati sui pavimenti freschi di ville perdute in aperta macchia mediterranea. Lo diceva già Cécile-Françoise, nelle prime righe di Bonjour tristesse, facendo eco a Paul Éluard e al suo La vie immédiate: “Adieu tristesse/ bonjour tristesse/ tu es inscrite dans les lignes du plafond/ tu es inscrite dans les yeux que j’aime” (“Addio tristezza/ buongiorno tristezza/ sei iscritta nelle linee del soffitto/ sei iscritta negli occhi che amo”). E lei, in eco, splendida diciassettenne, splendido tornado biondo:

Su questo sentimento sconosciuto di cui la noia, la dolcezza mi ossessionano, esito ad apporre il nome, il bel nome grave di tristezza. […] Oggi, qualcosa si richiude su di me come una seta, spossante e dolce, e mi separa dagli altri.

Articolo apparso su Charta Sporca

Pubblicato in Articoli | Lascia un commento

La casa

Guardo indietro e cerco di riavvolgere il nastro. La cassetta è semi-nuova ma si muove con fatica, temo che perderò le immagini minori, quelle che si impigliano in qualche zona della testa e sbucano fuori d’improvviso, in giornate vuote dove non si pensa a niente.

Sono passati giorni, inverni, sciarpe a quadretti per nascondere il naso e le orecchie. Si sono consumati passi, le scarpe hanno perso in lucidità, qualcuno dice che è meglio gettarle via, io rispondo che è proprio adesso, proprio ora che sono così consumate che diventano più belle. Guardo dalla finestra, non ci sono più i gerani, né le piante appassite dell’estate scorsa che sono rimaste a marcire per tutto l’inverno. La vicina non voleva toglierle, le ha lasciate morire, ingrigire, finché, stese dalla neve, si sono seccate e non erano più piante, ma scheletri di paglia. A primavera inoltrata faceva impressione osservare il davanzale. Eppure era stata lei, quattro anni fa, a regalarmi una piantina. L’avevo messa all’ombra, ci avevo infilato una girandola, proprio in mezzo al vaso. Quando il vento soffiava la piantina mormorava e la girandola muoveva le sue braccia a pois, bianche e rosse. Era sempre una festa, ma una festa triste, che è durata poco.

© Emiliano Ponzi

Poi è stata la volta del vetro. Tornando a casa, in una sera di febbraio, abbiamo notato che qualcuno aveva rotto il vetro. C’era una lunga crepa che arrivava fino al davanzale, fino alla linea di demarcazione delle piante morte. «Lo ripareranno», ci siamo detti. E ci siamo sbagliati. Il vetro ha continuato a creparsi, sono passati temporali, grandine contro i muri, alcuni fili elettrici sono saltati, per qualche sera è mancata la luce in tutta la via. La crepa cresceva, come cresceva la morte delle piante, e la primavera urlava nel giardino a fianco, la gatta di Sem sbirciava tra le grate, i bambini vociavano tra lo scivolo e le panchine. La casa, invece, sembrava silenziosa. «Certo che sono proprio cambiati» ma non sapevamo spiegarci il motivo. Cercavamo degli indizi, dei segni di stortura, forse un divorzio, per qualche momento ci siamo pure sentiti in colpa: che fosse a causa nostra? Ma poi abbiamo scacciato l’idea e non ci abbiamo pensato più.

A inizio estate la cucina – spesso chiusa – è stata protagonista di un fatto curioso. Il vetro del salotto era statto riparato con una striscia di scotch marrone, di quelli usati per gli scatoloni da trasloco. La striscia era una grossa lingua scura che fendeva a metà la finestra, pareva una ferita con sangue raggrumato, messa così, alla bell’e meglio, accanto alle piante morte. A osservarla dirimpetto, nei giorni di canicola, ci ha fornito la misura precisa della stranezza della casa, del degrado consumato e ormai divenuto ripetizione. La lingua raggrumata era divenuta l’emblema del loro nascondersi, del fingere di non esserci, del non esistere più. Mascheravano le loro silhouettes grassocce dietro al paravento del salotto, sprofondavano le teste nel divano e fingevano di non vederci, di essere soli. Le teste mal lavate sembravano gridare: «di che v’impicciate? Lasciateci agonizzare in pace». Intravedevamo solo i capelli, ciffi spiumati dai colori stinti e la luce abbacinante del televisore che era sempre acceso, notte e giorno. C’era anche una lampada, una lampada Ikea con il cappello rivolto verso l’altro, come fosse strozzata, piegata in posture oscene che non le appartenevano. Era come se tutto, in quella casa, si fosse preparato al martirio: avevano iniziato le piante a morire, avevano aperto la danza. Ora anche gli oggetti prendevano la loro rivincita. Parevano suicidarsi, abbandonavano il campo svuotandosi di senso.

La cucina, dicevo, aveva assunto un’aria nuova. Sulla finestra sempre aperta era stata appoggiata una tenda massiccia, di color rosso pompeiano, quasi un sipario da teatro o peggio un vestito romano, di quelli da festa in maschera con materiale sintetico. Un feticcio grottesco, un espediente mal riuscito che voleva mimare antichi splendori e che appoggiato a casaccio, sopra lo stipite, mollemente panneggiato, pareva mimare lascivie segrete rese improbabili dallo squallore delle pareti spoglie. La finestra non si chiudeva mai. Sfido: il peplo si sarebbe stropicciato, diventando lurido al contatto col muro esterno della casa. I bambini gridavano, nei pomeriggi di giugno giovacano senza sosta nel parchetto fino alle otto passate, e la finestra restava lì, socchiusa e immobile, supponente nel suo addobbo rosso sangue. Sfidava il sole, la stagione prepotente, ma era stonata e fuori asse rispetto alla leggerezza dell’estate, in barba a quelle voci acute e monocordi, alla luce violenta tra i rami e le foglie. E la casa appassiva, trincerandosi orgogliosamente dietro a un buio fittizio – la lingua marrone, il drappo stantio – pareva godere di quell’agonia meditata, si faceva beffe dei vivi, dei turisti che sorseggiavano vino spagnolo al ristorante dirimpetto, dei bambini felici, della gatta di Sem, di Garcia con le ciabatte da cucina e la cesta del mercato stracolma di frutta e verdura: i colori dell’estate.

Poi, una notte, saranno state le tre, sfiniti dal caldo, abbiamo notato le pareti. Erano spoglie, i quadretti africani, le cornici da pochi soldi e le storture dei mobili non c’erano più. Scatoloni, scatoloni, televisore acceso e lampada strozzata. Sono andati avanti così, a nascondersi, a non farsi vedere, a trasformarsi in ombre di giorno, in fantasmi di notte. Anche le piante se ne sono andate, «le avran buttate, è passato un anno e mezzo, ora che se ne vanno fanno pulizia». Il vetro è stato riparato, lo scoth-sangue-raggrumato è scomparso. Anche il drappo porpora è stato sfilato dalla finestra della cucina per non ricomaprire mai più.

Li abbiamo rivisti per sbaglio, la casa era vuota da giorni, i muri imbiancati, i vetri lasciati aperti, forse per far uscire l’odore di colla e vernice. Li abbiamo visti caricare gli ultimi aggeggi in sacchetti di plastica. I traslochi sono così, iniziano in pompa magna e si terminano in pompa funembre. Lei aveva una faccia storta, una piega nera attorno alla bocca, si vedeva che soffriva, che non ci voleva vedere. Sperava di non incontrarci, eppure ci seperano solo due metri e mezzo, abbiamo condiviso natale e domeniche di pioggia a mangiare crêpes insipide cotte con l’acqua «così non ti fanno allergia». Ma volevano andarsene così, come ladri, con il loro malloppo di mobili enormi, entrati a fatica in un appartamento dai corridoi stretti. Abbiamo condiviso pensieri, frasi sussurrate, sguardi sbiechi e liti in famiglia, desideri mai confessati, sopracciglia aggrottate senza che l’altro se ne accorgesse. Ma no, fino all’ultimo non ci hanno graziato. Lo sguardo affaticato, il bacio di convenzione, gli occhi incattiviti da un malessere che – forse – hanno imputato a noi. Ma che cosa? Che cosa?

La casa, ora, tace. I vetri sono puliti, i muri bianchi, il davanzale sgombro.

Pubblicato in Blog | Lascia un commento

Michele, una tragedia sociale

Si perderà fra le tante notizie della giornata. Lo share di Sanremo, le malefatte di qualche politico, le trovate di Trump, la guerriglia urbana nelle banlieues parigine. Si perderà e passerà al dimenticatoio, come una delle tante morti avvenute in questi anni, morte zitte e silenziose che non meritano i paginoni dei giornali. C’è Todorov che ci ha lasciati, i fiori saranno tutti per lui. È una morte zitta perché non ha il clamore della gogna mediatica, della gogna suicida dei social network, non c’è bullismo, né qualche video di troppo lanciato in rete e divenuto virale. Le colpe di questa morte, le vere colpe, finiranno assieme ad altre sotto al tappeto, domani sarà un altro giorno: la De Filippi avrà un nuovo vestito e la canzone tormentone sarà nelle orecchie di tutti.

© Shout - Internationale Magazine 2013 Calendar-Novembre

© Shout – Internationale Magazine 2013 Calendar-Novembre

Michele, che è stato uno di noi, verrà dimenticato. In pochi ne parlano, è una notizia che, smontato il clamore, sarà archiviata tra i fatti di cronaca provinciale. Perché Michele, che di anni ne aveva trentuno, ha spento la radio, ha messo a tacere televisione e giornali, ha chiuso la porta in faccia a una vita che non era quella desiderata. Michele, che a Udine si è ucciso, e ha lasciato una lettera – lucida, intelligente – per far sì che questa sua morte non venisse spettacolarizzata o peggio ancora fraintesa e dunque dimenticata, passerà come l’acqua di un fiume. “Un giovane che soffriva” – diranno gli esperti – “il dolore va condiviso”, diranno altri, “ha perso la fede” – sentenzieranno alcuni – “è un mondo senza più valori”, concluderanno gli ultimi.

Ma chi si prenderà la responsabilità per Michele? Chi avrà il coraggio di prendere la parola, oggi, domani, nel futuro, e di dire “abbiamo sbagliato, è colpa nostra, non siamo innocenti”? Sarà il Ministro Poletti con le sue sparate facilone e grossolane sui giovani rompipalle? Sarà un’ennesima Fornero con i suoi choosy che non accettano lavoretti da quattro soldi? Sarà l’ennesimo candidato alle presidenziali (perché ormai, Italia, Europa o America, tutto il mondo è paese) ad asserire che certe professioni non hanno ragione d’esistere, che bisogna sopprimere le formazioni artistiche, creative, letterarie, umanistiche, che certi giovani dovrebbero “tirarsi su le maniche e imparare a fare i manovali”? Saranno gli esperti psicanalisti, i sentenziatori dalle colonne dei giornali? O i piagnucoloni di Facebook che sputeranno sentenze infarcite di faccine tristi e animaletti che lanciano cuori? Chi parlerà per Michele? Chi difenderà la sua categoria, la nostra categoria, chi spenderà due briciole di tempo – e di buon senso – per analizzare una morte che avrebbe potuto – dovuto! – essere evitata e che è, di fatto, una morte politica, una morte sociale, la morte di un tempo malato, sofferente, ingiusto, codardo e furbo, che addossa il male ai più fragili, che s’arricchisce sulle spalle degli altri, che schiavizza, umilia e poi, infine, per gradire, si lava le mani e brinda a Prosecco e caviale?

Perché della morte di Michele è responsabile il nostro tempo. Sono responsabili i politici corrotti, incompetenti, che ricoprono cariche senza merito, senza titoli, che inventano lauree e si nascondono dietro esperienze mai fatte. Quegli stessi politici che oltre confine mantengono a soldi pubblici moglie e figli – mantenuti profumatamente, lautamente, impunemente – ma che per controparte chiedono ai cittadini di fare sforzi, di serrarsi la cintura, di unirsi nelle difficoltà e nelle batoste che arriveranno, ché, si sa, i tempi sono duri, “ciascuno deve fare la sua parte”. Della morte di Michele sono responsabili le istituzioni che non hanno il coraggio di protestare a sufficienza, sono responsabili i sindacati che non hanno bloccato strade, piazze, sottopassaggi infilando ai lavoratori una bandiera e uno striscione tra le mani, a dire “a queste condizioni non ci stiamo, a queste condizioni non lavoriamo e vi blocchiamo il paese, e la forza siamo noi, non siamo schiavi, ma individui, persone, entità libere che meritano rispetto e condizioni lavorative adeguate alle mansioni svolte”. Della morte di Michele sono responsabili tutti quei datori di lavoro, tutti quei furbi – che non sono furbi ma solo poveri, stupidi, troppo ignoranti per capire cosa sia un’etica – che propongono contratti di lavoro truffa, ore non pagate, voucher e ancora voucher (ché, certo, una legge c’è, ma ci si potrebbe ribellare, si potrebbe dire “a questa stregua non ci sto, voglio di più per i miei figli, non tratterò i miei lavoratori come bestie”). E invece no. E invece tanto la pelle è sempre quella degli altri, i figli non sono mai i nostri, dunque peggio per loro. Allora è facile spostare l’attenzione, dare dei lazzaroni a questi giovani trattati a briciole e porte in faccia, è facile usarli come carne da macello, spronarli a volere di più, a farsi competitivi e cattivi, spietati, cinici “lavora tutta la notte, fammi vedere chi sei, fai le scarpe ai tuoi colleghi e se sei bravo alla fine sarai premiato”.

Della morte di Michele, in fondo, sono responsabili i cittadini. Quelli che accettano la miseria e stanno zitti, quelli che si rimbambiscono di televisore e video lacrimevoli, che postano commenti moraleggianti ma che sono i primi incapaci di ribellarsi, di opporsi, di sviluppare un pensiero critico che gridi “NO” a un mondo del lavoro che premia l’arroganza e gli schiavi. Perché si sa, per te che vuoi essere pagato come si deve, con malattia e contributi, c’è sempre qualcuno pronto a fare lo stage aggratis, ché, si sa, il lavoro fa curriculum, chisseneimporta se così facendo divento complice di un sistema malato, chisseneimporta se accettando la gratuità (perché magari me lo posso permettere) contribuisco alla creazione di un sistema di schiavi: assurdo, paradossale, ingiusto eppure accettato dalla più parte e, ormai, consolidato.

Ma della morte di Michele è responsabile anche il sistema scolastico, le non-riforme, gli impedimenti che fanno sì che i migliori, i più preparati, i plurilaureati restino a casa a guardare il muro, a sognare la chiamata di un’azienda che creda in loro, a fare test su test nella speranza di un posto dietro una cattedra, mentre in cattedra per anni ci sono stati quelli che una laurea manco ce l’avevano, ma è così, sono stati fortunati, sono arrivati prima, il mondo era diverso, c’era spazio per tutti. È responsabile l’università che imbarca i talenti, li lascia marcire negli scantinati, permette loro di friggere patatine mentre i raccomandati, i portaborse, i leccapiedi privi di talento e personalità, pronti a vendersi l’anima pur di guadagnarsi la tessera del miglior lacchè dell’ateneo, lustrano scarpe all’ordinario di turno, tengono corsi e corsetti e un giorno – ne possono stare certi – arriverà un bel concorso-farsa, un solo posto disponibile e tra una miriade di candidati pluripreparati e pluripremiati, vincerà lui, il lacchè-portaborse-lustrascarpe, ché, si sa, il mondo è un posto giusto, e prima o poi la ruota gira per tutti: “se l’è meritato” – dirà la commissione – “era senza dubbio il migliore”.

Siamo noi i responsabili di questa morte. Noi che nel nostro piccolo ci arrabbiamo e soffriamo e ci sentiamo impotenti, noi che accettiamo situazioni non consone alla nostra preparazione e ci umiliamo dicendo – come Michele – che non siamo abbastanza. È l’apatia che ci uccide, è l’autocritica spietata che ormai ci ha ammazzato tutto: i sogni, i progetti, la voglia di cambiare le cose. Ci sentiamo soli, abbiamo l’egocentrica pretesa di essere calpestati da una sorte ingiusta, e non consideriamo gli altri, tutti gli altri, che fuori vivono e soffrono come noi. Non gli diamo spazio, ci chiudiamo nelle nostre stanze, soffriamo nelle nostre divise sintetiche mentre i diplomi brillano appesi al chiodo. Ci indigniamo per un mondo che va per il verso sbagliato ma ancora una volta non riusciamo a premere il pulsante, non facciamo abbastanza, non facciamo abbastanza. Diamo lezioncine a tutti, ci sentiamo dispensatori di buoni consigli, sufficientemente saggi da essere superiori a tutti gli altri, ma la responsabilità del nostro esistere non ce l’assumiamo più. Abbiamo dimenticato la lotta, l’etica, a votare non ci andiamo – sous pretexte che tanto nessuno è all’altezza – e alla fine ci accontentiamo del virtuale, del clic, di un articoletto come questo che vorrebbe dire la rabbia e l’impotenza e gridare “non è così, c’è speranza, Michele non è morto invano” e che invece si accartoccia su se stesso, malamente, in una trafila di parole note, di aggettivi arrabbiati che in pochi leggeranno per poi passare ad altro: la vita continua, ci sono gli appuntamenti, il lavoro, la cena da cucinare, i vestiti di Sanremo, i like di Facebook. E altri impegni, altri, infiniti, oblii.

[Articolo pubblicato in Charta Sporca]

Pubblicato in Articoli | Lascia un commento

Libri contingenti e libri necessari: “Al caffé degli esistenzialisti” di Sarah Bakewell

st-germain-des-pres-1949

Saint germain des Prés – 1949

Sono passati troppi anni da quando, in oscure caves affollate, gli esistenzialisti si sfinivano piroettando a ritmo sfrenato sulla base di qualche melodia jazz. C’era Juliette Gréco che cantava, Boris Vian che suonava la tromba. I ragazzi portavano maglioni scuri a collo alto, si vestivano in maniera stravagante – erano gli hipster, quelli veri – che imitavano nelle fantasia delle giacche i loro cugini americani. Nei locali affollati, nelle caves parigine – soffocanti localetti semi-nascosti nei bassifondi della città – si accedeva con un libro sottobraccio: era un segno di distinzione, o meglio di riconoscimento. Sono passati molti anni anche dai raduni scanzonati e pensosi al café Bec-de-Gaz, in Rue du Montparnasse a Parigi. Tra il 1932 e il 1933 vi si davano appuntamento Jean Paul Sartre, Simone de Beauvoir e Raymond Aron, compagno di classe e di memorabili bevute.

Sarah Bakewell, esistenzialista convinta da quando, in età adolescenziale, scoprì la Nausée, tenta qui un esperimento interessante. E se a quel caffé – si domanda – si riunissero tutti, tutti quanti insieme, quei filosofi che hanno fatto dell’esistenzialismo il movimento che poi è diventato? Se in quel café Bec-de-Gaz di Montparnasse, a bere succulenti cockail all’albicocca, non ci fossero stati solo Sartre e de Beauvoir ma anche tutti gli altri, i predecessori, i detrattori, gli amici trasformatisi poi in nemici, gli ispiratori e tutti, tutti insieme, fossero seduti attorno a un tavolo a discutere, a ridere, a dileggiare enormi aragoste e superfici vischiose, a questionare sulla responsabilità e l’impegno, l’angoscia, la contingenza, il fenomeno e molto, molto altro ancora? In altre parole che cosa accadrebbe se immaginassimo per un istante che tutte le vite, quelle vite filosofiche di Heidegger, Camus, Vian, Jaspers ma anche Husserl e poi ancora Dostoevskij, Brentano, Santo Genet e altri, fossero riunite in un grande caffè immaginario? Che cosa accadrebbe se provassimo a ricostruire il pensiero – le idee di ognuno – osservando questi personaggi da vicino, sbirciando la loro maniera di gesticolare, di bere, ridere o arrabbiarsi, il loro modo di corteggiarsi, motteggiarsi, litigare e fare la pace? Che cosa accadrebbe se andando contro qualsiasi teoria strutturalista e post-strutturalista sulla morte dell’io, sulla disintegrazione del soggetto, sulla necessità di ripensare la parola e non l’esistenza di un autore, ci mettessimo per un attimo a “guardar vivere” queste persone per comprenderne più a fondo la loro filosofia?

Guardar vivere, osservare il fenomeno, è l’essenza base della fenomenologia. E, ci dice Bakewell, è da qui che nasce l’esistenzialismo: dalla necessità di andar contro i grandi sermoni della filosofia di un tempo. Abbasso le vagheggianti teorie, abbasso le speculazioni senza prove contingenti. Quel che Sartre e de Beauvoir e tanti altri seguaci portarono avanti, partendo dall’essere, dalle idee inizialmente mal comprese di Heidegger, altro non fu che una filosofia dell’uomo, un pensiero completamente ateo capace di rimettere al centro della questione l’esistenza di ciascuno. Guardar vivere questi vecchi filosofi, osservarli in un caffè immaginario altro non è, per Bakewell (una laurea in filosofia e un dottorato non terminato su Heidegger) un modo per mettere in pratica – concretamente – il pensiero di questi stessi pensatori. Osservare la vita per tradurla in riflessione, farne opera scritta, dibattito. Andare avanti («Avanti! Sempre avanti!») per comprendere noi stessi e riflettere sul mondo. Per far sì che l’esistenzialismo – la filosofia dell’uomo, della vita – non passi semplicemente alla storia come una parentesi scanzonata, litigiosa e buontempona sul piacere di riflettere su se stessi.

L’opera di Bakewell – più di quattrocento pagine che si bevono con lo stesso gusto di un cocktail all’albicocca – passa in rassegna le esistenze di questi filosofi per mostrare come oggi, più che mai, di esistenzialismo ci sia bisogno. Triturato dalla critica strutturalista e post-strutturalista, dimenticato dalle scuole, non compreso dalle università, snobbato dai festival filosofici resta, purtuttavia, un momento chiave nella storia del Novecento. E se le università italiane non comprendono Sartre, se lo etichettano come un nombriliste, un egocentrico, un marxista-leninista-maoista dal carattere contradditorio e iracondo, se al grido beauvoiriano di «On ne nait pas femme on le devient» (donna non si nasce, lo si diventa) certi storcono il naso etichettando come “follia”, “invasamento” il pensiero femminista, allora sì, è proprio il caso di riaprire i libri, di dare fiato alla storia.

Ridare voce a quelle voci è un modo, ci ricorda Bakewell, per tornare a riflettere. Per spegnere i cellulari, per mettere a tacere lo stupidario televisivo che vuole una società di automi tutti tecnologia e niente cervello. Un modo, ci ricorda, per riscoprire concetti ormai andati perduti quali responsabilità, autonomia, criticità, libertà. Parole note e arci-note, banalizzate da manualetti fai-da-te, da direttive pseudo-pedagogiche che dovrebbero insegnare ai ragazzi il giusto vivere. E invece, quel che manca, quel che di cui si sente prepotentemente la mancanza, è proprio quell’aria di responsabilità e coscienza che attraversava gli anni d’oro dell’esistenzialismo, quelli del dopo-guerra, quelli della necessaria riflessione sul proprio essere uomini nel mondo, attraversati dal peso dolente di una libertà che esiste, e si deve manifestare, sempre in contrasto con la realtà contingente. «Penso sempre contro me stesso» sosteneva Sartre. Contro un proprio modo d’essere, una propria schelorizzata convinzione perché era quello, ripeteva, l’unico modo per andare avanti, per correre verso il domani e dire il nuovo e dirlo meglio. Per evolvere e non restare impantanati nella vischiosità assassina, nel laido benpensantismo di quelli che spengono la testa e si lasciano vivere, inerti.

La contingenza è, ci vien da dire, la caratteristica principale di questo volume che se non si appella alla più imponente “necessità” sartriana è semplicemente perché è nel qui e nell’ora che c’è bisogno di letture capaci di fornire una lente di ingrandimento sulla nostra società facilona e impazzita, deresponsabilizzata e vuota, ormai incapace di passione, defraudata dalla stessa possibilità di sentire. Bakewell ridà voce allo stupore, all’emozione del saper considerare «un cielo di zolfo su un mare di nuvole, il faggio purpureo, le notti bianche di Leningrado, le campane della liberazione, una luna arancione sul Pireo, il sole rosso che sorge su un deserto» così cari alla de Beauvoir, per riappropriarsi, ci dice, della nostra stessa esistenza, del nostro modo di essere cittadini della terra e del mondo. Avere coscienza del proprio essere, porsi domande, interrogarsi ma anche amare la vita nella sua meraviglia, nell’incanto boschivo, nel silenzio dei passi su sentieri di heideggariana memoria, è il mezzo necessario per non passare inutilmente su questa terra. Dimenticando la scusante della salvezza eterna, riappellandosi alla contingenza del pensare l’esistenza terrestre come unica e sola, rifacendosi a un’etica dell’uomo, una filosofia dell’uomo e non più del dio, Bakewell accompagna il lettore verso la ri-conoscenza di un periodo fondante della storia del nostro Novecento.
Rimettere al centro l’uomo e collegarlo al proprio pensiero. Ridare voce alla responsabilità di ogni destino e in fondo, ci suggerisce, non dimenticare chi siamo, non smettere di cercare, andare avanti, come faceva Sartre cieco e con l’udito ormai ammaccato che asseriva, malgré tout: «tutto sommato sono contento».

Al caffé degli esistenzialisti. Libertà, Essere e Cocktail
At the Existentialist Café. Freedom, Being and Apricot Cocktails
Sarah Bakewell
Fazi, 2016
Traduzione di Michele Zurlo
pp. 470
€ 20

[Articolo comparso in CriticaLetteraria]

Pubblicato in Articoli | Lascia un commento

Il giorno in cui Mich è partito

 

Mich è partito.

Se ne è andato in un giorno di maggio dello scorso anno, faceva freddo ed era una sera buia. Ho scritto di lui, per lui, un pezzo che ho sperato finisse in una rivista on line fatta di storie di donne. Che c’entra?, direte voi. E avete ragione. Infatti non mi hanno mai risposto. Ma al silenzio, ormai, ci sono abituata. Ho tenuto il mio “addio”  nel cassetto per un po’ di tempo. Poi, certa che non sarebbe finito da nessuna parte, ho deciso di riproporlo qui. Non per glorificare un amico, per incensarlo. Ma perché resti memoria, da qualche parte, del suo passaggio all’Opéra, della sua vita da agent d’accueil, dei giorni che ha passato in mezzo a noi. Mich è vivo, continua la sua vita altrove. Sta bene. Le malinconie restano imbrigliate nei luoghi e lui, andandosene, forse si è liberato di tutto, anche del dolore. Accade così quando qualcuno si licenzia. Il tempo passa, noi stiamo fissi e altri vanno avanti. Mi chiedo per quanto tempo ancora reciterò il ruolo di quella che sta a guardare le vite degli altri compiersi, per quanto tempo ancora guarderò senza avere la forza mai di fare un passo fuori dal cerchio.

© Emiliano Ponzi - The end of the artist

© Emiliano Ponzi – The end of the artist

10 maggio 2016

Classe 1983. Sei stato tu a formarmi al sensibile mestiere dell’accoglienza, tu che mi hai insegnato passaggi segreti, orientamenti delle porte, dove si trovano le sedie cigolanti. Sei stato il compagno di confidenze e voglie d’evasione.

Tredici anni di lavoro: per te, il tempo, è volato in fretta. Sei stato un bambino precoce, allievo della maîtrise dell’Opéra de Lyon (il coro di voci bianche) poi studente scapestrato. Sei ritornato all’Opéra che avevi vent’anni. Hai conosciuto Sophie quasi subito. Tempo dopo ci hai fatto un bambino, Joseph –  per gli amici Jojo – ma mentre lei è partita, tu sei restato. Alto, magro, un pallone da basket nell’armadietto, capelli biondi e ribelli, metà pizzetto quasi bianco. Chissà perché. Tu, che hai gli occhi chiari e sceglievi maglie taglia L perché, per essere alto, sei alto davvero. Mich, che guardavi le partite di calcio con i ragazzi della sicurezza, nascosto nel tabiotto a vetri all’Entrata Degli Artisti. Mich. Che eri responsabile dei balconi dispari ma che quando è stato necessario mi hai formata per diventare responsabile alla Platea. «Sarà dieci anni che non passo da qui, ma te lo insegno lo stesso».

Ti abbiamo festeggiato come si deve: succo d’arancia e vino rosso. Io e N. abbiamo portato il pane all’uva, altri colleghi una baguette da poco prezzo, due gazzose e quattro sacchetti di patatine. Il tempo era poco. Abbiamo fatto una fotografia, ce l’ha fatta lei, Mich, tua moglie – che poi moglie non è, ma è la mamma di Jojo, la tua Sophie – ce l’ha fatta quando tu stringevi tra le dita un bicchiere carico di Martini bianco. La bottiglia l’hai portata tu e l’hai bevuta solo tu, perché – guarda che l’abbiamo capito – ridevi ma volevi dimenticare.

Ci hai detto che dell’Opéra, quando ci sei tornato a vent’anni, dopo la maturità, ti erano restati gli odori. Sempre gli stessi. Quelli di sigaretta imbrigliati negli sfiatatoi dell’aria, quelli di moquette e scarpe lucide dietro alle porte della sala. Ci hai detto che se un giorno tornerai saranno gli odori, ancora loro, a colpirti per primi. E poi, certo, ci siamo stati noi.

Béa ti s’è fatta vicina. L’hai abbracciata. Aveva voglia di piangere: ha la tua stessa età, è all’Opéra dal tuo stesso tempo. Ne avete fatta di strada assieme. «Promettiamoci» ha detto lei. «Promettiamoci che quando avremo quarantacinque anni torneremo qui e ci berremo un caffè». «Io sarò disoccupata mentre voi due sarete chissà dove», ho detto io. Ma tu, Mich, mi hai risposto che no. Che sarò al mio quindicesimo libro, che avranno venduto tutti talmente bene che saranno dei best seller. E io mi son detta che non poteva essere vero ma un complimento così bello – un sogno così bello –  me lo sarei portata addosso per tanto tempo.

Sei partito ieri ma durante lo spettacolo ti sei nascosto. Non sei restato alla biglietteria, come facevi spesso, trincerato dietro ai tuoi fumetti, nascosto da qualche parte con il telefono o a chiacchierare con noi a gambe accavallate, mani tirate dietro la testa, a dirci «che farò mai nella vita? Ho perso troppo tempo, ora ne ho trentadue, cosa sarà di me?». Ti sei nascosto e qualcuno vocifera fossi al terzo balcone, non al sesto come facevi quando volevi fuggire dalla pazza folla. Si dice che fossi al terzo balcone ma non solo perché c’era Sophie a vedere la Generale dello spettacolo. Eri nascosto nel buio, a sentirti Iolanta di Čajkovskij perché volevi piangere senza farti vedere.

Andando via, era l’una passata, ti abbiamo stretto in un grande abbraccio. Eravamo noi, i pochi che sono rimasti. Ci siamo fatti attorno a te «stringetemi tutti!» hai gridato. E un attimo dopo: «voglio stare così per tutta la vita».

Te ne sei andato, Mich. Perché essere agent d’accueil non ti bastava. E io lo capisco. Non hai un piano per il tuo futuro: forse essere un maestro, il tuo concorso l’hai fatto, ora aspetti il risultato. Te ne sei andato senza sapere se sarai preso perché avevi paura, una fifa blu di non farcela. Pensavi che saresti stato un ragazzo per sempre, anche se sei un papà e le tue responsabilità te le sei prese tutte. Pensavi che non avresti mai combinato nulla di buono, che a furia di rimandare si diventa vecchi e il tempo si assottiglia sempre più. Lo pensavi e forse sbagliavi. Ne hai fatte di cose belle, anche stando qui, da maschera, da responsabile dei balconi lato dispari, a prolungare l’illusione che l’età giovane durasse ancora.

Te ne sei andato e poi, alla fine, accanto a due barboni, in una sera umida, ci hai fatto ciao con la mano. «Ciao Mich!». Ti abbiamo gridato. E tu a salutarci, a salutarci ancora. Ti vedo ora andare via, stringi il tuo pallone da basket sotto al braccio, ci sono le nostre firme, un modo per non dimenticare. Chiusa una parentesi se ne apre un’altra. Ma io lo so, Mich, che ora, per te, la giovinezza è davvero finita.

 

Pubblicato in Blog | Lascia un commento

In margine al manoscritto

Colazioni difficili © I.

Colazioni difficili © I.

Metto un punto e scrivo le date. Settembre – Novembre, due anni e due mesi. Penso al tempo che ci ho dedicato. Il mattino, la sera, la notte – quando ho potuto – a fare le ore piccole, con gli occhi incollati al monitor e la testa confusa dalla stanchezza. Che obbrobrio – direte voi – chissà cosa hai tirato fuori in un stato così. Penso alle mattine prestissimo, quando, tornata in Italia, con la casa che dormiva, accendevo il computer e la finestra era aperta, l’estate alle porte. Penso agli inverni gelidi, le tazze di tè nero sulla scrivania, le pile di libri a fare “da casetta”, a nascondermi, a dire a tutti: non ci sono, sono sparita, sto cercando di raccontare una storia. Penso alle sale ampie della biblioteca Chevreul, la biblioteca proibita, quella riservata agli studenti di Lyon 2 e io, infiltrata, clandestina, a raccontare di Roberto e del suo provino a teatro. Poi penso al pc che si è rotto, al cambio di tastiera, ai fili che sono staltati in aria, così come il tasto Canc che si è consumato, penso alle volte che, al mare, sentendo il rumore dei tuffi in piscina, riscrivevo il capitolo due e mi pareva d’aver fatto tutto molto male. Volevo cancellare la retorica e cadevo in altra retorica, inciampavo, non ero convinta. Penso a quando ne parlavo alla vicina che mi diceva: ti vedo dalla finestra, sempre lì, intenta a scrivere. Ma non sarà ora di consegnarlo? Erano passati solo otto mesi. Lo sapevo già, lo sapevo già allora che ero solo all’inizio. Poi penso al virus che mi ha preso il pc, penso alle peripezie per stamparlo su carta, penso alle letture con la penna nera, alle righe tracciate, i no, le frasi da rifare e rifare e rifare ancora. Finché la musica non viene, finché non suona con l’intonazione giusta. E agli amici che, sfiniti, ridevano: ma non è ancora finito?

Ora che è davvero finito, ora che mi sono giurata basta, non lo toccherò più, il romanzo attende, salvato in bella copia, di essere spedito. Queste sono le mie note a margine. A dire che il dopo, cioè l’adesso, non conta niente. Non conta nulla. Che ora che è finito e la storia raccontata posso anche fermarmi qui. Che lo so che non andrò da nessuna parte, che lo so che tanto uno spazio non ci sarà, che lo so che non arriverà in libreria né sulla scrivania di nessuno. Le case editrici lo cestineranno alla prima riga. Altre lo perderanno nel fiume delle mail di aspiranti scrittori pieni di tristezza e malinconia. Altre rideranno, dicendo “una fra i tanti” e così sarà, perché è giusto così. E’ una storia tra le tante, non scritta bene, non scritta male. Una storia tra le tante come tante ne accadono. E ho la lucidità per saperlo, per dirmi che non c’è gloria, che il valore è mediocre, che tanto, anche se la fiducia me l’avessero data, chi ci conviveva, poi, con quelle pagine stampate? Chi ci conviveva poi con la vergogna degli altri che leggono, che sanno che l’hai scritto tu, che non ti guardano più con gli stessi occhi? No, meglio così. Ma non è un modo di dire, la consolazione dell’infelice, dello scontento: la volpe e l’uva. E’ la verità. Il bello era crearlo, scriverlo, illudersi che quel tempo, speso nella fatica, quelle ore – infinite ore – passate assieme servissero a qualcosa. Ora lo so: sono servite solo a me stessa, un po’ ho allontanato il vuoto, ho detto a das ding di aspettare. E lei, buona, non ha fatto rumore.

Pubblicato in Blog | Lascia un commento

L’identità è una questione linguistica: “L’analfabeta” di Agota Kristof

Manufactura - Tomada de dokera

Manufactura – Tomada de dokera

È morta nel 2011 a Neuchâtel, sua città d’adozione. Aveva settantacinque anni e da tempo non scriveva più. A guardare a passo di gambero l’opera di Agota Kristof, scrittrice ungherese naturalizzata svizzera, il tutto suona quasi come una premonizione. In un’intervista del 2005 a Stefania Vitulli aveva confessato di essere stanca, la scrittura aveva perso d’attrattiva, non le interessava più pubblicare: “l’ho già fatto abbastanza”. “Fa lo stesso”, ripeteva, citando il titolo della sua futura (“ma sarà l’ultima”, giurava) raccolta di racconti: C’est égal (Seuil, 2005). Scrivere, non scrivere, amare un uomo o lasciarlo: “fa lo stesso. Non è l’età che mi ha portato a questo punto, sono sempre stata così”.

Le opere pubblicate, invece, non fanno “lo stesso”. Sono scritte, per la maggior parte, nella sua lingua d’adozione, il francese: la lingua “nemica”. Si tratta di testi che seguono una traiettoria precisa, si snodano sulla linea dei fatti perché, piuttosto che gli arzigogoli e i dettagli, per Agota era meglio camminare in direzione della realtà: il resto è superfluo – sosteneva –, sfocia nell’artificio. È quello che è accaduto con L’analphabète (Édition Zoe, 2004, edito in Italia da Casagrande, 2005) raccolta di scritti autobiografici composti all’inizio degli anni Novanta. “Quelli dell’Analfabeta sono testi di vent’anni fa. Ho dato tutto quanto all’Archivio perché non avevo alcuna intenzione di pubblicare i vecchi testi. Per me sono finiti, come se li avessi gettati via. Qualcuno, editori italiani, li ha trovati, gli sono sembrati interessanti, li ha richiesti”.

E per fortuna, verrebbe da dire. Perché Agota Kristof se ne è andata ma ha lasciato in eredità una lezione preziosa, tanto più utile nell’Europa di oggi, teatro d’insicurezze e contraddizioni. La storia del Vecchio Continente è antica ma l’identità di ciascun cittadino resta un percorso in fieri: non esistono dati acquisiti, certezze acquisite. Le nuove migrazioni che ci colgono impreparati sono le migrazioni di quella stessa ragazza ungherese che, nel 1956, con l’aiuto di un “passeur” di nome Jospeh, attraversava la frontiera e arrivava in Austria. “Mia figlia dorme tra le braccia di suo padre, io porto due borse. In una ci sono dei biberon, delle fasce, abiti di ricambio per la piccola, nell’altra borsa ci sono i dizionari”. “Eravamo un gruppo composto da dieci persone”, i ricordi sono confusi. La testa e la scrittura corrono indietro a quella terribile notte al confine: voci, strilli, qualcuno si fa prendere dal panico, le donne sono disperate, la strada per il villaggio sembra perduta. “Una luce potente ci illumina all’improvviso, una voce urla: Alt! Uno di noi risponde in tedesco: Siamo dei rifugiati”.

Sono i dizionari a permetterle la risalita. Lo shock linguistico che l’aveva attanagliata da bambina ora non la spaventa più. Lo sa, ormai, che le lingue sono infinite, una babele di codici che sfuggono, si modificano, si perdono. Ma nel tempo indefinito dell’infanzia tutto pareva diverso: “all’inizio non c’era che una sola lingua. Gli oggetti, le cose, i sentimenti, i colori, i sogni, le lettere, i libri, i giornali, erano questa stessa lingua”. È a nove anni, a seguito di un trasloco presso una città di frontiera, che avviene lo scontro con il reale: “almeno un quarto della popolazione parlava tedesco. Per noi ungheresi era una lingua nemica, perché ci ricordava la dominazione austriaca ed era la lingua dei militari stranieri che, all’epoca, occupavano il nostro paese”. Poi, due anni più tardi, la lingua russa diventa obbligatoria nelle scuole e le altre lingue straniere – tutte le altre – “sono vietate”. Infine, arrivando in Svizzera, per puro caso, all’età di ventuno anni, in una città dove si parla unicamente il francese, Agota è costretta a confrontarsi con un nuovo ostacolo. “È stato qui che è cominciata la mia lotta per conquistare questa lingua, una lotta lunga e ostinata che durerà per tutta la mia vita”. Il francese è una lingua ‘cattiva’ non soltanto per la difficoltà d’apprendimento ma perché lavorerà, giorno dopo giorno, a portarle via l’unica certezza che le era rimasta – l’ungherese – sinonimo di casa, passato, identità: “questa lingua sta uccidendo la mia lingua materna”.

Ma l’Analfabeta, soprattutto, è la testimonianza di un apprendistato. È la storia di una bambina vivace che impara a leggere a quattro anni. I soldi sono pochi, la casa è spoglia ma Agota si diverte, costruisce identità fittizie per spaventare il fratello più piccolo, combina disastri e quando sbaglia viene mandata in punizione nell’aula dove papà è insegnante. La punizione, però, si rivela un premio: la magia è quella dell’apprendimento. Ascoltando papà che fa lezione Agota trasforma l’espiazione della sua ‘colpa’ in un modo per crescere anzitempo. La sua diversità è motivo di scherno e la lettura una malattia spesso malvista dalla più parte della gente: “è pigra, non fa niente, passa tutto il tempo a leggere”. Ma è attraverso la scrittura, prima di brevi pièce teatrali in ungherese, poi di racconti, infine di poesie composte nella fabbrica di orologi di Neuchâtel, che il mondo le si rivela. La scrittura nasce sempre dal “dolore”, è un mezzo per incanalare la sofferenza della distanza da casa, è lo strumento utilizzato da adolescente per sopportare la dura vita nel pensionato per “sole ragazze” quando la mancanza della famiglia è una ferita che le secca la gola. Le parole non curano ma sono un balsamo, un liquore capace di scaldare le notti infernali della giovinezza, leniscono le piaghe di una vita adulta trascorsa in un paese straniero, attutiscono i ritmi impossibili del lavoro da operaia scanditi dai risvegli all’alba e dal rumore monotono delle macchine: “la fabbrica è perfetta per scrivere poesie. […] Si può pensare ad altro, le macchine hanno un ritmo regolare che scandisce i versi”.
Per tutta la vita c’è stata la fiducia, l’idea che scrivere fosse un piacere privato, un modo per definirsi: prima nella lingua madre, poi nel lemma straniero. Il mezzo, forse, per diventare cittadina d’Europa e del mondo, lo strumento utilizzato per sentirsi a casa tra pagine ora famigliari ora straniere. La fiducia con il tempo si è trasformata, quasi, in una faccenda di integrazione. I confini fisici sono stati abbattuti da quelli intellettuali: il percorso letterario le ha permesso un’adesione a se stessa, la scrittura è stata il filo d’Arianna che le ha aperto gli occhi, sorreggendola nella fatica, illuminandole il cammino anche quando la strada pareva smarrita. Attraverso le parole si è conosciuta, perduta, ri-conosciuta. Eppure “l’ostinazione e la pazienza” che l’hanno accompagnata per tutta la vita, sostenendola nello sforzo del re-imparare a leggere, re-imparare a scrivere, sono scomparse nella fase della vecchiaia. Le ultime esternazioni di Agota – quell’idea mortifera che tutto è uguale, che non c’è differenza – suonano, quasi, come una contraddizione allo sforzo perseguito per un’intera esistenza.
Non è così. Il nucleo della sua riflessione è rovesciato. Lo sappiamo che Agota non era un’analfabeta, così come sappiamo che il sentimento di inferiorità linguistica non era dissimile da quell’“idiozia” congenita di cui Flaubert prima e Sartre poi hanno scritto, mostrando come il guasto – il tarlo primigenio – altro non era che la chiave per essere, persentire prima degli altri, più degli altri. Agota ha lavorato, per tutta la vita, avendo fede nella propria opera. Ha avuto fede anche quando ha finto il contrario, ha voluto far credere che tutto fosse finito ma lo sapeva che era un gioco, che quel titolo in francese, “orgogliosamente” scelto da lei, quel C’est égal della penultima raccolta, in realtà faceva eco a un concetto opposto. Ha scritto pur sentendosi un’emarginata, una straniera. Si è portata appresso dizionari e sbavature linguistiche sforzandosi di scardinare le parole, di farle sue trovando, attraverso una letteratura dura ed essenziale, un modo per integrarsi, per non sentirsi estranea, elemento altro da additare come nemico. Ci è riuscita. La sua opera ha avuto fortuna, gli editori hanno creduto nei suoi versi, nelle battute da teatro, nei brevi scritti che compongono questo e altri libri. Ci è riuscita costruendosi una terza identità, quella di cittadina d’Europa, accettando la sfida della complessità e della distanza. Per questo il suo è un lascito prezioso, un’eredità da tramandare ché, come suggerisce Massimo Recalcati, “il fiume della lingua è il fiume da cui tutti noi proveniamo”, il mezzo attraverso cui ci generiamo scoprendoci “degni di un linguaggio”, dunque uomini, esseri pensanti, creature vive.

[Pubblicato in Charta Sporca]

Pubblicato in Articoli | 1 commento