Una piccola giornata

Quando si leggono libri di corrispondenze tra autori, innamorati, amici o conoscenti, vien da pensare che forse sì, perdendo le lettere abbiamo perso molto. Non credo si tratti di “perdita dei rapporti”. Infondo il telefono ci avvicina molto di più di quanto potevano fare le poste aeree più di sessant’anni fa. Ma leggendo le lettere che Simone De Beauvoir (ebbene si, il filone esistenzialista continua) scriveva al suo “coccodrillo” Nelson Algren, penso che la mancanza di un racconto capillare di sé attraverso la pagina e la scrittura faccia perdere molto di quello che ci capita, di quello che siamo. Ripeto che il telefono può molto, moltissimo: la voce supera kilometri e distanze inimmaginabili e subito si è come dall’altra parte, seduti sulla poltrona della stanza da cui il nostro amico o la persona in questione ci sta chiamando. Siamo a due palmi di naso eppure lontanissimi, pronti a raccontare. Ma cosa resta negli anni che passano di quelle telefonate? Forse quando si è fortunati un bellissimo ricordo. In altri casi la vaga sfumatura che sì, quando si era giovani, si passava ore al telefono con questo o quell’amico, con un tal innamorato. Ma della quotidianità raccontata in quelle cornette non resta niente.
Dico questo perché a volte, per essere davvero vicini a qualcuno, bisognerebbe raccontare non le grandi questioni che attraversano l’esistenza (di quelle sì, ce n’è sempre bisogno, ma esse hanno il prodigio di non “scadere” di non avere un termine) ma i piccoli fatti del nostro giorno, dal risveglio fino a quando ci siamo coricati. Non tutto, è ovvio, ma i gesti che ci distinguono, per immaginarci nel quotidiano.
Ci penso e mi pongo la domanda, può interessare a qualcuno? Non lo so. Ma io ci provo.
Voglio farvi vedere cosa è un piccolo giorno, come può essere efficace (o inefficace, giudicherete voi) la telecronaca vera di una piccola parte di vita.

La sveglia al mattino che porta una voce registrata e ci avvisa che sono le 8 e ventisette minuti. I preparativi prima d’uscire, il succo d’arancia e il caffé, la madeline di Paolo e il pezzo di scottex per non sbriciolare. I libri nella borsa rossa, carica che mi fa male la spalla persino portandola a tracolla, ma tanto è così, le mie spalle portano libri da anni, non possono non fare male.
Vieux Lyon e i netturbini del mattino che hanno aperto l’acqua per lavare le strade, c’è un cielo azzurro forte, ma la strada è umida, l’acqua si scioglie al sole, c’è uno strano vapore e uno strano silenzio. Ho il maglione nero al posto della giacca, in biblioteca ieri ho avuto freddo. Nel metterlo ho notato che ha un buco sulla manica: o ci sono le tarme o l’ho impigliato da qualche parte. Dovrò ricucirlo.
Cammino, le scarpe mie fanno rumore, sono nere, stringate, le ho portate per gli anni della specialistica a tutti gli esami della sessione invernale, e poi alla Gradisca, perché erano eleganti senza essere ballerine (quando si fa la cameriera in un ristorante si sa che una scarpa veramente chiusa è sempre meglio di avere una parte del piede scoperto: in un ristorante cade sempre qualcosa addosso (ops..forse ero io che non ero un granché..)). Quelle di Newman sono silenziose.
Restano voci sottili che vengono dal baretto in piazza Saint Jean, non c’è molta voglia di chiacchierare, tutti leggono i loro giornali e sorseggiano un cappuccinò, o un café crème, en taisant (tacendo).
La biblioteca dell’università ha tavoli lunghi, legno chiaro, finestre alte, oggi è più tiepida. Svuoto il contenuto della borsa sul tavolo, un quaderno, I maestri del ‘900 di Taffon, Il segreto del bosco vecchio di Buzzati, Le cronache fantastiche, Delitti, sempre di Buzzati e Lettres à Nelson Algren di Simone De Beauvoir. Il mio astuccio rosa vecchio, uno spago rosso per unirne le cuciture sfumate, due evidenziatori, il termos da caffé Sturbuks con dentro un caffé che non è Sturbuks ma Maison du café preventivamente preparato prima d’uscire. C’è un’aria tiepida e il bibliotecario che è un po’ stupido, ma alza sempre gli occhi dal suo lavoro per salutare chi entra, chi esce. Si studia. Newman è da basso, nella sala pc. Sistema i suoi infiniti appunti sugli autori del fascismo e dice che i tavoli della biblioteca sono troppo alti e gli fanno venire il mal di schiena. Ci vediamo alla pausa, scendo con due quotidiani presi al bar dell’università. E’ presse gratuite, non v’illudete, ma almeno m’informo bevendo i thé della macchinetta su quello che accade a Lyon e per quanto è possibile per un giornale gratuito, nel mondo. La macchinetta del caffé dell’atrio è ancora rotta, mannaggia, c’è il caffé lungo che è il mio preferito. L’altra fa schifo e comunque oggi è spenta. Non mi resta che quella della caféteria, ma c’è ressa, sono le 11,45 e già gli studenti francesi fanno la coda per il pranzo: pollo, verdure al curry e blé da taboué, solito muscuglio français.
Pausa finita, ritorno ai libri.
13,30 Newman è fuori dalla biblioteca. Si ritorna a piedi a casa, si fa la strada al contrario e si attraversa di fretta. Sembra un giorno di settembre, l’aria è diventata mite, si potrebbe passeggiare per ore. Newman sfreccia a prendere la baguette e io porto in casa la sua borsa da studio. Metto l’acqua per la sua pasta, accendo il pc per sentire radio 24 e preparo la mia insalata con lo sgombro.
Newman ritorna e pranziamo, sentiamo lo spadellare del ristornate sotto casa nostra, il vai e vieni dei clienti di Wez (il nostro proprietario d’appartamento che è anche chef stellato del ristorante sotto di noi). Ci sarà salmone, penso, è mercoledì.
Mentre il caffé si prepara nella mia macchinetta americana, ci scegliamo una versione gossippara del tg da guardare: studio aperto ci annuncia che un tizio è salito sulla cupola di S. Pietro. Vuole essere ascoltato. Tutta l’Italia dovrebbe salire sui tetti, allora sì, che forse saremmo ascoltati.
Una skyppata con mia mamma e il suo progetto di dottorato, il desiderio che gli altri siano felici e che vedano realizzati i loro progetti. La forza che vorrei trasmettere e che sento sempre che non arriva mai. Non abbastanza.
Ancora studio, ancora parole.
 Poi ci siete voi, questa telecronaca bizzarra di un piccolo giorno, un giorno senza opéra, un giorno dove si studia e si pensa, dove si vorrebbe raggiungere gli altri e allora lo si fa annoiandoli un po’, ma sperando che visualizzando le parole, visualizzino anche me, e che mi vedano sorridere. Per loro.

I.

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Una risposta a Una piccola giornata

  1. Valeprevi ha detto:

    mercoledì 3 ottobre, ore 22.27
    Cara Ilaria,
    sai già fin troppo bene come la penso, ma facciamo il punto della gara a due:
    – Discorsi infiniti fritti e rifritti che riguardano l'esistenza fatti dai vari autori esistenzialisti e filosofi vari. Lo so che tu ti ci perdi in questi discorsi, ti ci crogioli proprio, ma sai anche che io li chiamo sinteticamente “seghe mentali”.
    – Racconti semplici, diretti, immagini immediate, odori e fotografie di vita reale, quotidiana, la tua, la nostra.
    Vedo il tuo astuccio rosa vecchio, mi ha sempre fatto venire in mente la scarpetta di una ballerina classica. Il caffè schifoso di una macchinetta, chi ne ha trovato uno buono alzi la mano! Il tg gossipparo, dico sempre che è un'oscenità per l'informazione ma poi me lo guardo sempre. Le notizie che vedi tu dalla Francia sono le stesse che vediamo noi di quà.
    E allora mille volte voto il racconto personale di una giornata personale di un'amica lontana, tanto per sapere davvero cosa fai nelle giornate francesi. Falli lo stesso i discorsi esistenzialisti, so che non puoi vivere senza, ma raccontaci sempre di te e di quello che fai, sembrerà di essere lì, a sbirciare da dentro il tuo astuccio rosa.
    Kiss Vale

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